Nel vostro archivio personale, quali sono le principali fonti di ispirazione per il vostro lavoro artistico?
La scintilla che ha acceso la nostra ricerca artistica e filosofica è stata Donna Haraway. I suoi saggi, in particolare La promessa dei mostri, costituiscono una delle basi concettuali principali di Sex.Exe. Anche un lavoro precedente, Albatros, si ispirava al Manifesto Cyborg della stessa Haraway.
A questa radice filosofica si intrecciano altre due fonti essenziali: la natura e l’iconografia storico-artistica. Durante lo sviluppo di Sex.Exe siamo partiti da una ricerca sul corpo e sulla sua qualità percettiva e spaziale. Da lì, quasi in modo naturale, è emersa l’iconografia classica, come un riflesso involontario: le performer assumevano una qualità del corpo che evocava quelle immagini storiche. È stato come se l’iconografia si manifestasse a partire dal corpo stesso, non il contrario.
A completare il panorama teorico entra in gioco anche il transfemminismo e il concetto di ipnocrazia, tratto da un testo di Jianewi Xun. Si parla del rapporto tra essere umano e tecnologia come sistema di controllo: una società ipnocratica in cui siamo costantemente immersi in uno stato di ipnosi sistemica. Ma il nostro intento non è “uscire” dal sistema – cosa impossibile – né combatterlo frontalmente, rischiando che assorba e neutralizzi anche la critica. Si tratta piuttosto di imparare a navigarlo consapevolmente, per trasformarlo dall’interno.
Riallacciandoci a questo concetto di ipnocrazia: nel vostro lavoro la tecnologia è più oggetto di indagine o elemento espressivo?
Eliana ed io siamo d’accordo: è entrambe le cose. Ma forse, prima di tutto, è oggetto di indagine. Il punto di partenza è molto concreto: la tecnologia comporta dei costi. Per un artista, il rapporto con la tecnologia è spesso prima di tutto economico, perché per accedervi servono risorse. In Albatros, per esempio, i dispositivi tecnologici erano già pensati come mezzi espressivi. Tuttavia, come ricorda Haraway, la tecnologia non è il problema in sé. È piuttosto l’uso gerarchico e strutturato che se ne fa, il modo in cui contribuisce a consolidare sistemi di potere e controllo. Senza la tecnologia non avremmo avuto movimenti globali. Non è da demonizzare, ma da comprendere.
Per questo, nei nostri lavori, la tecnologia è sì uno strumento espressivo – specialmente nella ricerca visiva, nel colore, nella composizione scenica – ma è prima di tutto un oggetto di riflessione critica. È una presenza che imprime una tensione filosofica e politica sui corpi, che li intrappola e li definisce, ma che può anche essere destrutturata e trasformata dall’interno. In un’epoca come la nostra è difficile prendere posizioni nette: non serve rifiutare la tecnologia, ma imparare a starci dentro senza farsi annichilire.
Veniamo ora al tema conduttore di MilanOltre 2025: la moda. Pensate che la danza segua tendenze cicliche come la moda?
Dipende da cosa intendiamo con moda. Se parliamo della moda come sistema consumistico, allora i suoi cicli sono legati alla logica del mercato, al bisogno di vendere. Ma tutto questo è incompatibile con un corpo vivo. La performance dal vivo – che sia danza o teatro – rappresenta uno degli ultimi baluardi di resistenza al capitalismo. La danza non è ripetibile né replicabile. Ogni performance, anche se basata sulla stessa partitura, sarà sempre diversa: imperfetta, irriproducibile. E soprattutto, non è un oggetto fisico vendibile. Il corpo, nella danza, si sostiene da sé: è la sua stessa sostenibilità.
Quindi no, la danza non segue tendenze cicliche nel senso del sistema moda. Può essere influenzata, certo, ma resta uno spazio radicalmente altro. Un luogo dove il tempo, il corpo e la presenza non rispondono alla logica del prodotto.
A cura di Arianna Bonazzi
Questo contenuto è esito dell’osservatorio critico dedicato a MILANoLTREview 2025