Quest’anno, MilanOltre ha voluto andare “oltre” in tutti i sensi. Non solo dal punto di vista artistico, con una continua ibridazione e fusione con altre discipline, come la moda e la tecnologia, ma anche geografico, allargando il suo raggio d’azione al Museo d’Arte Gallarate, per tutti MA*GA. Quest’apertura comporta un allontanamento dal centro del festival, che è il Teatro Elfo Puccini di Milano, e dal pubblico “abituale”, ma in cambio dà la possibilità sia ai milanesi “in trasferta” sia a persone che non avrebbero intrapreso il viaggio per il capoluogo lombardo di godere di due brevi e intensi lavori di due coreografe di caratura internazionale. In questo contesto, infatti, si inseriscono i lavori di Masako Matsushita Un/Dress Moving Painting e la performance site-specific di Andrea Peña a chiusura della mostra Atto Unico. Entrambe, in modo diverso, sono riuscite a (con)fondersi tra le opere d’arte del museo, diventando esse stesse simili a dei quadri.
La performance di Matsushita si colloca all’interno della Sala degli Arazzi, dove i tessuti pendenti dal soffitto disposti in file da tre riempiono di colore la sala, portando lo spettatore ad alzare lo sguardo per ammirarli. Quest’ultimo, però, deve stare attento a dove mette i piedi, dato che la disposizione delle sedie e degli oggetti non è in direzione di un palco, ma segue la lunghezza della stanza, con una fila di sedie sui lati lunghi. Al centro, sono disposti sei drappi zebrati, lunghi quanto la sala stessa. Infine, vicino a una delle file di sedie, sono posizionati una quindicina di reggiseni di diversi colori e stili. La performance silenziosamente comincia, mentre il pubblico sta ancora parlando: Matsushita arriva, passando dietro alle sedie, con indosso solo (sembra) un paio di mutande. Avanzando piano in ginocchio, indossa tutti i reggiseni, spingendoli verso la vita con una serie di movimenti precisi e ripetuti, creando così un vestito che le copre il ventre. Il tutto è molto più chiaro ed appariscente una volta in piedi, quando procede con movimenti simili per realizzare una gonna con le sue mutande, tutte addosso dal principio. La varietà di tonalità e colori creati sul corpo la lega agli arazzi, stabilendo un’unione tra tessuto e danzatrice che la rende essa stessa un quadro in movimento. Eppure, Matsushita sembra voler rompere questo “simbolo di femminilità” e armonia con lo spazio e, dopo aver camminato a fatica perché imbrigliata dalla stretta gonna, se la toglie in una volta sola, come fosse un pezzo unico, e lo stesso fa con i reggiseni, rimanendo infine a terra, nuda. Svestita dei capi più semplici, la danzatrice raggiunge il centro della sala in ginocchio e indossa i drappi zebrati. Con questo nuovo vestito, avanza lentamente, come in una sfilata di moda, e il suo sguardo dritto, rivolto verso l’infinito, la proietta in uno stato di ieraticità. Sembra invincibile, eppure quel vestito finisce per sopraffarla, facendola cadere sotto il peso della sua stessa immagine, in apparenza una metafora della società contemporanea, in cui ci importa più di come ci vedono gli altri. Eppure, si percepisce una nuova consapevolezza in lei: nel momento di maggiore vulnerabilità, lentamente si libera dalle spire e si rialza, nuovamente nuda, come se si fosse liberata dal peso di un essere donna costretta in certi capi o atteggiamenti, ma anche da una moda legata all’apparenza. Con questa nuova immagine di sé, lascia la sala senza toccare nessun tessuto, ma guardando oltre e sparendo in silenzio, come era arrivata.
La performance di Andrea Peña, invece, è stata organizzata in una sala differente, in cui era stata allestita la mostra a cura di Emma Zanella e Alessandro Castiglioni. Qui non solo l’artista, ma anche il pubblico, disponendosi lungo le pareti e prestando attenzione a non colpire le opere, sembra integrarsi con l’allestimento. L’illuminazione è quella prevista per l’esposizione: una luce fioca e leggera che lascia molte ombre nella sala. In questa ambientazione, la danza di Peña s’inserisce in punta di piedi, al suono dei suoi passi e del suo respiro. Vestita da motociclista, la sua danza è delicata e si appoggia – dando così forma ad una partitura coreografica – su tre sedie rosse, che l’artista ha voluto portare nello spazio per costruire il suo site specific. Una danzatrice in pieno ascolto con la tridimensionalità dello spazio, con le immagini dell’opera video alle sue spalle e soprattutto verso lo spettatore che ha cercato con lo sguardo per tutta la durata della performance. Come a volerlo svegliare o tenerlo con sé. Non è necessario trovare un leitmotiv o un messaggio nella performance di Peña, di cui è percepibile la ricerca e l’interesse a creare un percorso con lo spettatore come parte integrante, non solo come osservatore esterno. Esemplare, a questo riguardo, il momento in cui, dirigendosi al muro, vi si appoggia e, come creta, si modella nei gesti, pose e movimenti, continuando a scivolare lungo la parete: le persone immediatamente, scansandosi dalla sua traiettoria, non intralciano il suo fluire. Eppure, nonostante la stupenda immagine del pubblico che, come una marea, si ritira per lasciare dello spazio all’artista e per vederla all’opera, la domanda che sorge spontaneamente è: e se fossero rimasti? Cosa sarebbe accaduto? È difficile dare una risposta, dato che nessuno ha osato provare. Forse nessuno si sentiva abbastanza temerario o pensava fosse irrispettoso stare immobili e interrompere il lavoro di Peña. Oppure il pubblico, compreso chi scrive, ha avuto paura e cercato più di scappare dallo sguardo e dalla forza della danzatrice, la quale dava l’impressione di poter scalare una montagna a colpi di danza, tanto era immersa nel suo lavoro. Questa sua capacità di vivere il momento della danza dà la possibilità di diventare un tutt’uno con le installazioni e opere esposte e interagire con esse al momento giusto, ad esempio, rinfrescandosi, con “Manowe (Reproducing Work)” di Ludovica Carbotta poco prima del finale. Peña è stata in grado di realizzare un vero e proprio site specific, dove la danza nella tridimensionalità dell’ascolto ha saputo trascinare la relazione tra artista e spettatore non solo in una narrazione gestuale ed appropriata rispetto alle opere, ma anche nello spazio fisico, passando tra le due zone di allestimento. La danzatrice si toglie la giacca, abbassa dolcemente lo sguardo vivo e ipnotico fino a un istante prima e il pubblico sa che è arrivato il momento di applaudire.
Proprio gli sguardi delle due danzatrici e la loro ricerca di immergersi e unirsi nelle sale a loro disposizione sono gli elementi che più rimangono impressi a seguito dei due giorni di MilanOltre al MA*GA. Entrambe le performance hanno visto le sale del museo non solo come un palco, ma come una scenografia preallestita o un vestito già agghindato, e hanno solo dovuto indossarli. Il pubblico è stato accompagnato dagli occhi e dalle movenze delle due danzatrici ad aprirsi a nuove riflessioni sia sul concetto di danza sia sui suoi elementi costitutivi (il corpo) e collaterali (l’abbigliamento e lo spazio). L’unione di tutti gli elementi ha dato vita a delle coreografie irripetibili, che riassumono il senso stesso dell’arte performativa, ossia un atto che va vissuto, sentito e respirato dall’inizio alla fine, in un’unione tra artista e pubblico.
Giacomo Matelloni
Foto di © Bobby Brown e © Roberto Marossi
Un/Dress Moving Painting
coreografia Masako Matsushita
sound artist Andrea Buccio
assistente produzione Paolo Paggi
produzione Hangartfest, Fattoria Vittadini, Nanou
con il supporto di Gabriella Biancotto, Lesley Millar, AMAT Residency at Teatro Sperimentale, Teatro Persiani, Naturalmente Sana
In collaborazione con Archivio Missoni
Atto unico: performance site-specific
di e con Andrea Pena
con le opere: La sepoltura di Adamo, 2012, video-opera di Luigi Presicce
Questo contenuto è esito dell’osservatorio critico dedicato a MILANoLTREview 2025
