Quasi irriconoscibili nelle giornate conclusive di questo ottobre, i Giardini della Biennale di Venezia sono in alcuni tratti transennati, e ovunque vuoti delle consuete masse di visitatori che, in un anno qualsiasi, sciamerebbero tra i padiglioni nazionali, affrettandosi per ammirare performance, maquette, dipinti e installazioni. Solo il Padiglione Centrale, con la sua volta dipinta da Galileo Chini e la finestra a vesica piscis disegnata da Carlo Scarpa, offre un’immagine cristallizzata della manifestazione che dal 1895 ha trovato sede negli edifici circostanti e negli spazi sterminati dell’Arsenale, diffondendosi nel corso degli anni un po’ dappertutto in città, tra squeri e palazzi abbandonati, calli e sprazzi di luce.
Rinviata al 2021 la Mostra Internazionale di Architettura, l’edizione 2020 della Biennale – la prima presieduta da Roberto Cicutto – ha infatti celebrato il proprio centoventicinquesimo anno di attività con l’esposizione Le muse inquiete, un itinerario realizzato dall’Archivio Storico della Biennale grazie alla curatela condivisa dei sei direttori delle singole sezioni. Attraverso documenti e fotografie, manifesti e articoli di giornale, a dispiegarsi nelle sale del Padiglione Centrale è un affondo tematico e cronologico sui tanti istanti nei quali le arti esposte a Venezia hanno subito la pressione della Storia.
Indignati, osserviamo gli ostacoli che il Potere, di volta in volta subdolo o esplicito, ha frapposto alle trasformazioni sociali e alle rivoluzioni estetiche, alle metamorfosi dei costumi e alle conquiste dei diritti. E tuttavia quella Storia che è sembrata più volte tramutarsi in freno e immobilismo è lo stesso ininterrotto fluire che, proprio qui a Venezia, ha conosciuto accelerazioni e salti talmente irruenti da sedimentarsi in pietre miliari e punti di svolta. Il risentimento lascia presto il passo alla commozione, mentre si scrutano le istantanee di Bob Wilson e del suo Einstein on the Beach, o di Jerzy Grotowski durante l’allestimento di Apocalypsis cum figuris: e infine subentra una quieta invidia nei confronti di chi può testimoniare di essere stato presente, di avere assistito a quelle rare, gigantesche torsioni di un’epoca e di un sentire: «Io c’ero! Io ho visto!», si vorrebbe sussurrare.
Ed è proprio questa orgogliosa affermazione che Marie Chouinard, per l’ultimo anno alla direzione della Biennale Danza, antepone ai nomi di Steve Paxton, di Marlene Monteiro Freitas, di Benoît Lachambre, nel viscerale testo che introduce il catalogo dedicato alla quattordicesima edizione del Festival Internazionale di Danza Contemporanea. La coreografa canadese annota quanto i momenti di grazia siano «rari ma sublimi»: e quasi a riverberare l’afflato teorico ed emotivo sotteso alla mostra, il programma 2020 da lei firmato sembra porre al centro dell’attenzione dello spettatore i magmatici temi della memoria e della sua labilità, del tempo così come delle azioni e interazioni che esso impone e costruisce sui nostri corpi, sulle nostre esistenze.
Non sorprende allora di trovare in cartellone lavori come Avalanche di Marco D’Agostin – nelle parole del suo creatore un «dispositivo della memoria» – oppure Time Takes the Time Time Takes del duo Guy Nader/Maria Campos, un’indagine sul «qui e ora come stato di contemplazione». La storia, l’esperienza, l’oblio si pongono come fulcri, centrali benché non esclusivi, attorno ai quali artiste e artisti hanno sperimentato un affastellarsi creolo di soluzioni e linguaggi, che ben si accorda al titolo che Chouinard ha dato all’edizione: AnD NoW! Lungi dal porsi soltanto come riferimento alla stereotipata formula di presentazione di uno show («And now, ladies and gentlemen, we are proud to present…») l’espressione sembra evidenziare, nella sua esclamazione, l’imprescindibile necessità di confrontarsi – soprattutto in questo eterno, dilatato 2020 – con il tempo, l’attimo, con la loro persistenza.
In quest’ottica Posare il tempo, la coreografia che Claudia Catarzi ha presentato al Teatro Piccolo Arsenale nei giorni conclusivi della rassegna, si pone come creazione esemplificativa di un’indagine collettiva sulle zone di frizione tra corporeità e temporalità, dalle quali la danza sembra germinare come esito naturale. Nella ricchezza polisemica del verbo scelto, il cui uso è ciò nonostante quotidiano e ordinario, la coreografa pratese, qui sostenuta dal CDCN La Manufacture di Bordeaux, dichiara una chiave interpretativa e tematica, e al contempo ne illumina le accezioni meno evidenti, squadernando allo sguardo possibilità e impreviste sfumature. Se in prima istanza la creazione – la cui drammaturgia è firmata da Amina Amici – sembra infatti reificare il tempo, sottoponendolo a traslazioni spaziali (collocazioni e sistemazioni, appoggi, cadute) dall’altro è evidente un approccio figurativo al fluire cronologico, in grado di fotografarlo e scolpirlo in concrezioni carnali. Catarzi aggiunge qui una tappa significativa a una ricerca che sembrava già matura in A set of timings, coreografia del 2017 danzata insieme a Michal Mualem, nella quale i corpi dominavano – più che esserne dominati – il procedere temporale, e duettavano in una giocosa e sofisticata sinfonia di ritardi e attese, anticipazioni e subitanei incontri. Come nel precedente lavoro, anche in Posare il tempo lo spazio scenico è duplicato nella sua profondità dalla presenza di un fondale mobile, posto al centro del palco: un riquadro bianco sul quale si stagliano, nei primi istanti della performance, i corpi di Catarzi stessa e di Claudia Caldarano.
Al di sopra della partitura musicale eseguita live alla batteria da Gianni Maestrucci, posizionato alla sinistra del proscenio, le due intraprendono una chirurgica, millimetrica sequenza di variazioni minime delle posture: bassorilievi che emergono al di sopra della superficie nitida, le due danzatrici rispondono alle sonorità percussive con rotazioni della testa, flessioni del busto, estenuanti stasi e lentissimi movimenti. La loro danza bidimensionale, di parossistica cura, si dipana per pause e costruzioni di pose, nella quali un’idea di gemellarità, di duplicazione della medesima immagine, si alterna a momenti collaborativi e prese architettoniche. Gli equilibri, sempre precari e soggetti all’influenza del suono circostante, si fluidificano e trasformano costantemente un disegno in un altro, dando vita a un caleidoscopio di gestualità che trova un limite soltanto nello spazio agito, limitato ai pochi metri quadri incorniciati dal riquadro bianco. Ben presto la danza di Posare il tempo si apre però all’ambiente circostante: una fuga, uno sconfinamento, la scomparsa di un corpo dietro il fondale e l’inane tentativo di riacciuffarlo, di ricondurlo in un habitat luminoso e sicuro, anticipano così la caduta della superficie verticale e la conquista del palco.
La drammaturgia sonora, firmata da Bruno de Franceschi, accosta adesso alle percussioni lontani voci di folla, di un mondo sociale che sembra estraneo, finanche ostile, al duo: al floorwork, che isola e disarticola le danzatrici, segue una sezione in cui mano nella mano tentano di recuperare una medesima direzionalità, e che tuttavia le vede procedere verso direttrici contrapposte. Scevra della volontà di offrire un racconto leggibile, o di accostare alla danza un afflato politico o civile, l’opera di Catarzi si rivela straordinariamente inattuale e tanto più necessaria nella rinnovata centralità offerta al corpo e al dialogo che esso stabilisce con lo spazio, con la gravità, con il tempo che ne modella le metamorfosi. Ed è infatti con acuta sensibilità che Catarzi e Caldarano mutano temperatura e atmosfera nella seconda sezione della performance, facendo deflagrare ineffabili significati all’esperienza spettatoriale. Indossando adesso due gonne tra loro annodate, le danzatrici amplificano la ricchezza dei fuori asse e delle posizioni di forza, dando vita a equilibri fragili, fluidi e dinamici. È, quella di Posare il tempo, una danza di occasioni: di momenti cairologici, di attimi opportuni nei quali tentare di cogliere l’istante, afferrarlo e colmarlo di significato. Ecco che ridisegnare relazioni e intessere legami con sé stessi e con l’altro sono forse opportunità che nel tempo e nella storia – e non più soltanto di fronte a essa – trovano inediti nuclei di senso, latori di azioni possibili.
Alessandro Iachino
Posare il tempo
coreografia: Claudia Catarzi
drammaturgia: Amina Amici
performers: Claudia Caldarano, Claudia Catarzi
musiche originali e drammaturgia sonora: Bruno De Franceschi
percussioni live: Gianni Maestrucci
sound design: Francesco Taddei
disegno luci: Massimiliano Calvetti, Leonardo Bucalossi
produzione: La Manufacture – Centre de Développement Chorégraphique National Bordeaux Nouvelle-Aquitaine
coproduzione: La Briqueterie – Centre de Développement Chorégraphique National du Val-de-Marne, POLE-SUD – Centre de Développement Chorégraphique National (Strasbourg), Art Danse – Centre de Développement Chorégraphique National Dijon Bourgogne, Centre Chorégraphique National Malandain, Ballet Biarritz, Le réseau Tremplin: Danse à tous les étages – Bretagne, L’Etoile du Nord – Paris, Le Mac Orlan – Brest, Le Triangle – Rennes, Chorège – Falaise, Centre Chorégraphique National de Nantes, CANGO Centro Nazionale di Produzione sui linguaggi del corpo e della danza (Firenze), Company Blu
con il contributo di: MIBACT, Regione Toscana, Zebra | Cultural Zoo
con il sostegno di: Glob Théâtre (Bordeaux), SPAM! (Porcari), Teatro Era (Pontedera), Armunia (Castiglioncello), Le Murate (Firenze), Centro arte contemporanea – Museo Pecci (Prato)
produzione: FAB – Festival International des Arts de Bordeaux Métropole, La Manufacture – CDCN Bordeaux Nouvelle-Aquitaine Au Glob Théâtre
Foto: Luca Hosseini
Visto al Teatro Piccolo Arsenale, Venezia – Biennale Danza 2020