Sul tavolo della regia frutta e biscotti in sacchetti trasparenti. Nell’aria si spande un odore di mandarini: che fa casa, fa famiglia, fa insieme. Il tutto è colloquiale, informale. I ragazzi, ormai uomini e donne, arrivano prima per riscaldarsi. Professionali e precisi.

Oggi parleremo di loro, ché senza non si farebbero i laboratori. Ché senza gli attori, i danzatori, non ci sarebbe il teatro. Sono tutti al muro, prima di cominciare il nuovo esercizio. Sono belli, così tutti insieme, da fotografia, di quelle da appendere, da lasciare lì anche quando si sbiadiscono. Sono in attesa, maglie colorate come se a metterle una accanto all’altra fosse stato un ritrattista non vedente. Braccia abbassate lungo il corpo come probosciti sull’erba, i piedi leggermente divaricati che sembrano lancette di un orologio, gli stomaci che si innalzano ed abbassano come marea in un respiro profondo. È un affresco impegnato di spalle dritte e petti in fuori. Come in un faccia a faccia, come ne I soliti sospetti.

Kuska è allegramente egocentrica, vede un microfono e ci si fionda, come un richiamo più forte di lei, una calamita alla quale non sa resistere. È forte, energica, una leader. Emmanuelle ha una maglia rosa di qualche taglia più larga: è longilinea, una silhouette sospesa, appesa a due gambe da trampoliere mentre rotea in passi di capoeira, nel suo volto scavato, negli zigomi sporgenti. Benjamin è flessuoso, snodabile, come la fiammella di una candela, come un pennello esile, un fisico asciutto su aste da cavalletta. Paloma è spagnola, ha le ginocchiere rosa da pallavolista, si getta a capofitto nelle situazioni, non conosce la parola timidezza, parla un inglese improbaile ma ha una simpatia innata, contagiosa. Nella sua improvvisazione ha un vestito-corazza di cartone legato con spago da emigranti, un po’ black block, un po’ saio francescano. Dice: «La paura è il peggior peccato capitale, la paranoia il peggior sentimento».

Nicholas è sudcoreano: ha in sé tutta la compostezza orientale che esprime nella sua performance sull’identità rimanendo fermo, immobile e muto per minuti interminabilmente evocativi e lancinanti.

Jan Lauwers, il maestro, ha una parola per tutti. Soprattutto vede, guarda con attenzione, osserva, poi consiglia, dice, chiede, s’interroga, spiega, semina complimenti come appunti critici. Vuole intensità nel volto, nell’espressione facciale. La sua risata è piena, “grassa”, di gusto.

Stefan invece è deciso, rigoroso, risoluto. Catherine ha schiena larga e la risata roca, Carlota ha folti ricci rossi, è una pentola a pressione di muscolatura compatta pronta ad esplodere, Stefanie porta stranamente i tacchi, abitini succinti e vistosi, dalle tinte accese: è la prima a portare sul palco un proprio lavoro dove lo smalto è sangue, la terra sono escrementi, le rose secche invece sono rose dai petali decadenti; il suo corpo è nudo e s’impiastriccia nel magma.

Florian pare un rugbista, è scapigliato e scarmigliato, muscoloso e muscolare, esonda di bicipiti. Francesca ha humour da vendere, è sfacciata, sa stare sul palcoscenico; Nina ha capelli di paglia, è italiana ma vive a Parigi, più attrice che danzatrice; Marta è invece timida, non si propone, sta nell’ombra, i capelli sparati, sempre in nero. Lydia è siciliana, ha una voce splendida che sa modulare ed usare alla perfezione. Anche Lauwers se ne è “innamorato”. Volchitza danza in sottoveste in una sua drammaturgia sulla libido; Meredith è statunitense, dissacrante come Woody Allen; Meirav ha la maglia gialla, è timida e nel microfono la sua voce rimane flebile; Karme è spagnola, capelli come spaghetti e lentiggini in abbondanza: nel suo solo è in chat, persa in un amore a distanza che risolve in un fallimento. Si lavora sui conflitti, sugli scontri, sulle liti. Sull’immissione in un contesto idilliaco, bucolico, di un elemento esterno di rottura. Per registrare le reazioni, i cambiamenti, le virate. La parola di oggi è “ensemble”.

«You can do much better»: stimola gli allievi, il Maestro. Ma è anche entusiasta di loro, del loro lavoro. È ossessionato dalla voce: li fa provare e riprovare. A parlare col microfono, davanti sul proscenio, in fondo alle quinte. Lui si sposta in platea, sempre più indietro, fino all’ultima fila. Che già lo diceva De Gregori ne “La valigia dell’attore”.

Ripete: «Very good».

E poi alcune frasi, da appuntarsi, che traduco alla meglio: «Cerchiamo di trovare una nuova ragione per fare arte», oppure «La tragedia a teatro è impossibile perché è tragica la vita». Sottoscriviamo.

Tommaso Chimenti

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