Il festival della Biennale Teatro è, da sempre, un appuntamento imperdibile per appassionate e appassionati di teatro, critici, operatori, artisti e artiste: un’ottima occasione per individuare le traiettorie presenti e future della scena contemporanea internazionale. Theatre is Body – Body is Poetry è il titolo dell’ultima edizione, la prima diretta da Willem Dafoe, orientata alla riscoperta del corpo dell’attore, «che ha il potere di creare con il pubblico una comunità immediata, soprattutto in un’epoca in cui gran parte della nostra esperienza è mediata dalla tecnologia», come si legge nell’introduzione da lui curata al catalogo di quest’anno.

Trascorsa qualche settimana dalla fine della manifestazione è tempo di bilanci, ed è difficile negare che dalla programmazione (che ha dedicato ampio spazio ai grandi maestri del secondo Novecento, da Barba a Schechner) siano emerse più conferme che scoperte. Basti citare due nomi che non costituiscono certo una scelta rischiosa, ma che riescono sempre a lasciare un segno del loro attraversamento del tempo presente: Romeo Castellucci e Milo Rau. Si devono a questi due artisti i titoli forti di questa edizione della Biennale Teatro (dello spettacolo ideato da Rau insieme a Ursina Lardi potete leggere qui l’approfondimento di Virginia Magnaghi) che, pur nella diversità dei codici e delle estetiche, hanno saputo offrire un contributo rilevante sulla valenza politica dello sguardo, e sul nostro rapporto con le immagini.

Resterà nella memoria della Biennale 2025 in particolare I mangiatori di patate di Castellucci, anche perché si tratta di un’azione performativa site specific che non avrà altra circuitazione. Già l’ambientazione scelta per la creazione del lavoro rappresenta una prima e significativa scelta autoriale: l’isola del Lazzaretto Vecchio di Venezia venne designata, nel Quattrocento, come luogo per l’isolamento dei malati di peste, una zona di confine e compresenza tra vita e morte, di allontanamento e distanza dalla società, dallo scorrere della vita quotidiana. Una dimensione extra-ordinaria, quella dell’isola e della struttura che la domina: uno spazio carico di una memoria inquieta, fantasmatica, pacata eppure incombente, un portato che permea e innerva I mangiatori di patate.

foto di Andrea Avezzù

L’apice di questa immersione in una dimensione di alterità viene raggiunto negli spazi dell’ultima stanza/corridoio, dove si susseguono una serie di immagini misteriose, inquietanti, criptiche: nel buio totale, ci si ritrova improvvisamente travolti da un vento fortissimo e da un rumore quasi assordante, capaci di provocare un senso di terrore viscerale, atavico. Perdiamo infatti tutti i possibili riferimenti sensoriali utili per orientarci all’interno dello spazio: I mangiatori di patate riesce a prendere possesso di ogni angolo della struttura in cui viene realizzata. Abbiamo così la sensazione di un incontro ravvicinato con l’oltretomba, con il divino, con una dimensione sacrale estranea al nostro controllo razionale.

Un filo di luce lascia progressivamente apparire proprio davanti agli occhi del pubblico una grande statua dotata di ali, un Angelo della Storia portato avanti dalla tempesta di vento, voltato di spalle, tutto rivolto a un futuro distante da noi spettatori, dalle nostre macerie e dai disastri del nostro tempo. Nel momento in cui la statua riappare voltata di fronte, ha però perso la testa: sembra volerci dire che non c’è proprio più nulla da guardare, più nulla da salvare e raccogliere dal nostro presente. L’Angelo lascia poi spazio all’ingresso ad alcuni minatori, i mangiatori di patate (minatori e contadini rappresentano infatti, nella cultura irlandese, due volti della stessa condizione lavorativa, ma anche esistenziale), immortalati da Van Gogh per il loro saper incarnare uno stile di vita autentico, immediato, privo di filtri (come scrive in una lettera al fratello Theo). I cinque uomini portano davanti al pubblico un sacco nero, del tutto uguale a quelli visti nelle stanze precedenti, lo aprono e pian piano estraggono un corpo totalmente dipinto di bianco: il cadavere torna alla vita e, attraverso uno strumento-medium simile a un piccolo imbuto, prende parola. Come la Sibilla, il suo linguaggio non è affatto comprensibile, l’accesso alla verità rivelata, giunta dall’oltretomba, è totalmente inafferrabile, eppure sentiamo di dover rimanere lì presenti, in ascolto. Il linguaggio si manifesta in tutta la sua disfunzionalità e la sua violenza: ci ricorda della nostra impossibilità di arrivare a comprendere davvero il reale attraverso la parola, l’interpretazione linguistica degli eventi e di ciò che ci circonda. Un nucleo di indagine che da sempre – e più che mai nell’indimenticabile Giulio Cesare – anima la produzione artistica di Romeo Castellucci.

foto di Andrea Avezzù

Il regista cesenate, operando con una radicalità che ricorda i primi lavori della Societas, non si preoccupa di offrire legami, nessi logici, sviluppi narrativi. Ci lascia nella responsabilità dello sguardo, nello shock che le immagini suscitano in noi: «La forma politica del teatro è innanzitutto stare insieme e guardare. È uno dei pochi momenti in cui si può avere una coscienza di questo gesto, che è appunto lo sguardo […]. Ha perso l’innocenza, lo sguardo, nel nostro essere spettatori in stato permanente: siamo solo e sempre spettatori in termini di consumo. Siamo sempre più informati ma non c’è niente da sapere, non c’è niente di interessante». Così sostiene Castellucci in uno degli interventi che compongono il documentario Theatron Romeo Castellucci, interessantissima ricognizione del lavoro dell’artista raccontata attraverso le immagini dei suoi spettacoli, le sue stesse parole e quelle di sua sorella Claudia, realizzata nel 2018.

Queste parole risuonano come un monito inquietante, ripensando alle immagini di dolore che quotidianamente ritroviamo sotto i nostri occhi, soprattutto all’interno della comunicazione social – a partire dal genocidio di Gaza, certo, ma pensando anche alle morti live di influencer e tiktoker, ai pestaggi mortali a cui possiamo assistere anche in presa diretta – un’assuefazione nei confronti della sofferenza, della morte, capace di traformarsi in una patina di apatia e di distinziamento rispetto a quanto osserviamo, incapaci di essere scossi nel profondo dall’atrocità anche di ciò che dietro a queste immagini si cela, e di pensare alla nostra stessa relazione con quello che vediamo, e alla nostra conseguente possibilità di intervento. L’arte di Romeo Castellucci ci invita a essere responsabili dello sguardo e consapevoli delle dinamiche di potere sottese: è necessario assumere coscienza di questa implicazione, capace di manifestarsi proprio nelle possibilità del linguaggio teatrale, nella dimensione politica veicolata attraverso la fruizione collettiva che la sostanzia, fondamentale per scardinare un pericoloso stato di quiescenza, spingendoci a specchiarsi nell’abisso in cui siamo immersi.

Alice Strazzi


in copertina: I mangiatori di patate, foto di Andrea Avezzù

I MANGIATORI DI PATATE
di Romeo Castellucci
musica e voci Scott Gibbons, Oliver Gibbons
drammaturgia Piersandra Di Matteo
con Luca Nava, Sergio Scarlatella, Laura Pante
e con Vito Ancona, Jacopo Franceschet, Marco Gagliardi, Vittorio Tommasi, Michela Valerio
direzione tecnica Eugenio Resta
sculture e macchine Plastikart Studio – Amoroso & Zimmermann
tecnica del palco Andrei Benchea
tecnica dei suoni Claudio Tortorici
tecnica elettrica Andrea Sanson
ingegneria Paolo Cavagnolo
direzione della produzione Benedetta Briglia
produzione Caterina Soranzo
organizzazione Giulia Colla
realizzazione dei costumi Carmen Castellucci, Francesca Di Serio
equipe tecnica a Cesena Gionni Gardini, Dario Neri
attori a Cesena Nicolò Francesco Russo, Mattia Bartoletti Stella
amministrazione Michela Medri, Elisa Bruno, Simona Barducci
economia Massimiliano Coli
produzione Socìetas
coproduzione La Biennale di Venezia