Superato il foyer e varcata la soglia di quella stanza in cui “tutto può succedere”, ci aspettiamo e pretendiamo di stare comodi: di adagiarci su poltroncine di velluto e lasciare che chi sta sul palco faccia tutta la fatica per noi spettatori. 

Ma se invece non fosse così? Se non ci fosse concesso di rilassare i nervi quanto basta per dar libero sfogo ad un eventuale sbadiglio? 

Ecco ciò che accade di fronte a Landless. Papadopuolos, attraverso il corpo di Georgios Kotsifakis ci ha fatto stare fisicamente scomodi, muscolarmente tesi e ipnotizzati. 

Luci spente. Un lungo silenzio rotto solo da una lama di luce che gradualmente svela, sul lato destro del palco, un corpo di spalle, seduto e leggermente ricurvo. 

Passa qualche minuto prima che il perfomer si accorga di noi, ma non appena la sua testa si rivolge alla platea uno sguardo sfonda la quarta parete. Subito veniamo sorpresi e quasi rimproverati, come se i nostri occhi indiscreti – se avete visto la serie Fleabag sapete di cosa sto parlando – violassero una scena intima. 

Poi accade qualcosa: come un elettrocardiogramma che da una linea piatta si anima in scatti e picchi, così il movimento di Kotsifakis si accende, scoppiettante e nervoso, a tratti impercettibile, ma allo stesso tempo enorme. Ogni contrazione – tecnica tipica del popping – genera un impulso sonoro, ogni scatto crea un segno grafico e musicale insieme.  Le esplosioni quasi si propagassero dalla bocca del danzatore implodono e riesplodono in tutto il suo corpo. La sua danza è fatica condivisa: ossa che sembrano disarticolarsi e ricomporsi, in un corpo che si decostruisce e ricostruisce continuamente.

Catturati dal suo volto, quasi senza accorgercene, ci troviamo davanti a un busto che cammina: avanza verso di noi sulle ginocchia, la testa piegata all’indietro. Sorprendente quanto un corpo “tagliato” dal collo alle ginocchia possa apparire più grande di un corpo eretto. E di continuo cambia, invade lo spazio: fluttua sul palcoscenico come se i piedi provenissero dal pavimento, come fossero radici. Piccoli e semplici movimenti degli arti inferiori danno l’impressione che stia pattinando.

Poi un cambio. Per un attimo sembra mutare registro, come a voler catturare ancora di più la nostra attenzione – che già era al massimo – e scivola inaspettatamente in quarte jazz. Forse un richiamo ironico al tipico spettacolo di danza che ci aspetteremmo di vedere? Un tentativo di confonderci, forse rassicuraci: riportarci nella sfera fittizia del teatro, ricordarci che non è reale. Ma dura solo pochi secondi: è reale eccome. Tutto in lui emana sofferenza.

Kotsifakis torna subito a insistere con impulsi ossessivi, quasi maniacali, e si avvicina alla prima fila con un’aria ambigua, tra sfida, richiesta d’aiuto e rimprovero. Ancora quello sguardo di biasimo (si pensi di nuovo a Fleabag): «State davvero qui, seduti comodi a guardare, mentre nel mondo accade tutto questo?». Lo spettacolo sembra invitarci a utilizzare la tensione fisica che ci ha trasmesso per alzarci, agire, prendere coscienza del dolore, delle ingiustizie. 

Un accuratissimo gioco di luci per tutta la durata dello spettacolo ha confuso la percezione: a tratti sembrava di avere davanti un’ombra, a tratti un corpo concreto. è più difficile provare empatia quando le cose non sono tangibili. Un’ombra non la possiamo toccare. Eppure l’ombra è sempre creata da qualcosa di reale. 

Nella parte finale lo stratagemma visivo raggiunge l’apice. Dopo un buio improvviso, il performer diventa egli stesso luce: non vediamo più la sua danza in carne e ossa, ma una proiezione luminosa che trasfigura il corpo e lo consegna a un’altra dimensione. Un cambio musicale ci trasporta altrove: nell’atmosfera sospesa della natura, dove osserviamo solo luce che danza. Quiete dopo la tempesta. Dopo un grido di dolore emanato da ogni particella corporea, tutto sembra essersi calmato, o quantomeno, concluso.

E noi? Che abbiamo fatto? Siamo rimasti comodi anche nella scomodità? Abbiamo applaudito e ci siamo rimessi i cappotti, probabilmente ci siamo anche distratti e goduti il sabato sera. 

Ma dopo questa fatica condivisa forse dovremmo chiederci: usciti da quella sala, continueremo a stare seduti? 

 

Giulia Margherita Montaldo 

 

Landless

ideazione e coreografia Christos Papadopoulos e Georgios Kotsifakis
con Georgios Kotsifakis
musiche Jeph Vanger
disegno luci Eliza Alexandropoulou
produzione LAC Lugano Arte e Cultura
coproduzione Torino Danza

foto di © Luca Del Pia

Questo contenuto è esito dell’osservatorio critico dedicato a MILANoLTREview 2025