Il viaggio: l’Inferno è il primo capitolo di una trilogia ispirata alla Divina Commedia. Da cosa nasce il tuo interesse nei confronti di quest’opera?
Il progetto in realtà nasce come un’investigazione su oggetti comuni, su come utilizzarli stravolgendo il loro uso quotidiano. Analizzando la forma degli oggetti, ho notato che essa rispecchiava la simbologia dell’Inferno di Dante: l’imbuto e le trottole sono dei coni, così come la struttura dei gironi infernali raffigurata nella Divina Commedia. Da lì ho preso ispirazione per il mio lavoro.
Ti sei focalizzato su determinati canti o piuttosto sulle tematiche generali dell’opera?
La struttura della cantica mi ha dato spunto per la divisione in scene. L’Inferno è molto descrittivo: Dante parla con i peccatori, poi passa al girone successivo, anche senza una precisa connessione tra uno e l’altro; ho costruito allo stesso modo il mio lavoro, con molti cambi scena e stacchi improvvisi. Ho poi preso ispirazione da alcuni canti nello specifico, ad esempio dalla descrizione dei Simoniaci, conficcati con la testa nel terreno e i piedi in aria circondati da fiamme: l’ho interpretata utilizzando delle candele e assumendo una determinata posizione. Allo stesso modo ho lavorato sul concetto di contrappasso, con la ripetizione infinita e costante della punizione, o nel mio caso, dell’azione. Ho voluto mostrare le ossessioni, le paure dell’uomo ed evidenziare i suoi peccati.
Porti quindi in scena la condizione dell’uomo contemporaneo e del suo inferno?
Esatto. Molto spesso usiamo la parola “inferno” senza effettivamente sapere cos’è. Diciamo “questa casa è un inferno” per dire che è disordinata, oppure ci lamentiamo di aver fatto una “coda infernale” che magari è durata un’ora. Prendiamo sottogamba il significato della parola. Nella proiezione che conclude lo spettacolo ho mostrato chiaramente, forse anche in modo didascalico, veri scenari d’inferno creati o subiti dall’uomo. Ma in fin dei conti sono solo immagini di avvenimenti che non ci toccano, li guardiamo da un punto di vista esterno, li percepiamo come lontani da noi. Non c’è una vera connessione con quello che guardiamo. Finché qualcosa non ci tocca in prima persona, siamo un po’ egoisti, continuiamo con le nostre vite. L’empatia è molto limitata.
Nella scena finale c’è anche un giudizio sull’individualismo dell’essere umano?
Non è una critica diretta; volevo piuttosto sollecitare lo spettatore a una riflessione. L’uomo ricade sempre nei suoi stessi errori, è in balia degli eventi, è facilmente influenzabile da forze esterne. Non voglio dire “tu che guardi sei un peccatore”, perché tutti lo siamo. Non è un giudizio ma un momento di introspezione. Lascio al pubblico la possibilità di interpretare liberamente le scene e immergersi in quello che rappresento.
Il protagonista de Il viaggio si presenta in ogni scena con un abito e un’attitudine sempre diversi, esprimendosi sia attraverso la voce sia attraverso il movimento. È un personaggio che compie un’evoluzione o semplicemente mette in scena i vizi dell’uomo? Quanto c’è del tuo vissuto personale in questa narrazione?
Mentre le scene sono indipendenti tra loro e non hanno una connessione diretta l’una con l’altra, il personaggio è lo stesso in tutto il viaggio, si muove tra diverse situazioni. Compie un’involuzione e poi un’evoluzione, si spoglia e si riveste. In ogni scena ho messo elementi personali, della mia storia, anche delle mie paure e incertezze, mi mostro nudo. Ci sono molte immagini diverse, alcune forti, altre più elementari. Lo spettatore è libero di ricollegarsi alla Divina Commedia o al proprio vissuto, lasciandosi suggestionare dalle immagini per arrivare, alla fine della visione, a un proprio giudizio sul lavoro, su se stesso, o sull’umanità e sulla storia.
a cura di Beatrice Botticini Bianchi
foto di copertina: Serena Nicoletti
Questo contenuto è parte dell’osservatorio critico MILANoLTREview