In scena i due danzatori si scaldano, spalle al pubblico, ognuno nella propria sezione di palco. Al centro l’armadietto blu di una palestra e la panca, in spagnolo poyo, che sul finale arriverà a tingersi di rosso. Un poyo rojo è il titolo, che nel suo gioco di parole riprende sia i cognomi dei coreografi originari, Poggi e Rosso, sia l’idea di un metaforico hotbed attorno al quale gli argentini Alfonso Barón e Luciano Rosso si sfidano a colpi di pivot e gancio destro. L’espressione corporea prende vita sulla scena in un ampio ventaglio di forme, scelte per raccontare l’incontro tra due uomini, che si sfidano, si stuzzicano, si desiderano. Si passa, senza soluzione di continuità, dai movimenti del vogueing alle sequenze del muay thai, in un amalgama di estetica raffinata e prorompenza atletica. Divenuto spettacolo cult, Un poyo rojo dal 2008 non smette di sbalordire e divertire, registrando di volta in volta sold out negli oltre trenta paesi di un tour che non accenna a estinguersi. Un successo dovuto anche alla centralità del binomio danza-comicità, utilizzato per trattare una tematica particolarmente sentita e sempre attuale. Barón e Rosso sono performers del physical theatre, come loro stessi amano definirsi: lo scarto umoristico nasce dall’imprevedibile evoluzione del passo – da una posa di balletto classico si giunge, in pochi secondi, allo sbraitare della gallina. Ogni concettualismo viene accantonato in favore di una fisicità istintiva, per una fruizione democratica su vasta scala, accessibile agli habitué della danza e non.

Foto @Hermes Gaido

E così si rimane sbigottiti, o quasi, nel constatare che quegli stessi interpreti figurano in Dystopia, in prima nazionale al Teatro Elfo Puccini all’interno del festival MilanOltre. L’ultima novità della compagnia argentina si presenta come uno spettacolo radicalmente diverso: la regia di Hermes Gaido, questa volta, favorisce una fitta drammaturgia e un continuo ricorso al supporto audio-video, lasciando poca libertà alla dirompente fisicità di Barón e Rosso. Qui i due ballerini si muovono all’interno di uno spazio verde definito, ristretto, memore di quella stessa condizione di clausura dovuta ai lockdown degli ultimi due anni. In assoluto contrasto, alle loro spalle il green screen mostra paesaggi lontani e realtà parallele, dal deserto sahariano alla metropolitana londinese. Un altro schermo trasmette invece il collegamento dagli studi di ‘Juan y Juan’, dove due presentatrici civettuole — alter ego femminili degli stessi performers — commentano l’esibizione di stralci da Un poyo rojo, ponendo domande senza troppo ascoltare le risposte. L’effetto comico è assicurato, l’interazione fra i quattro si costituisce come uno dei momenti più riusciti dello spettacolo. Ben presto però le due donne scompaiono dal tessuto narrativo, scacciate dalla massa d’identità digitali che via via Barón e Rosso assumono con l’ausilio di filtri creati ad hoc, su modello di quelli utilizzati da Instagram. Ne consegue un andirivieni di personaggi — o meglio, stereotipi, in cui la presentazione di un proprio sé alienato si propone come soggetto principale della pièce: attiviste, fan sfegatate, barbuti hipster e tecnici economisti. L’impronta satirica ne direziona le fila verso una beffarda critica sociale, a tratti particolarmente diretta.

Se in Un poyo rojo l’attualità entrava di sottecchi attraverso l’utilizzo di una radio in scena, di contro, in Dystopia, lo status quo viene continuamente punzecchiato in un susseguirsi di espressioni e attitudini proposte con l’intento di restituire uno spaccato della società contemporanea nelle sue contraddizioni più ridicole. Il corpo sul palco e l’identità sullo schermo: la vera forza dello spettacolo sta proprio in questo sdoppiamento percettivo, le cui potenzialità però non vengono sfruttate a pieno. L’aderenza dei personaggi a una codifica intransigente finisce col ripiegarsi su sé stessa, saturando l’intervento del pubblico, rimasto ormai intrappolato fra le maglie della moltitudine dei costumi virtuali.

Ritornare alla concretezza del corpo, questo sembrano suggerirci Un poyo rojo e Dystopia, seppur attraverso vie opposte: il primo con un’euforica esplosione muscolare, il secondo con lo scollamento dal proprio essere. Due esperienze teatrali radicalmente diverse, il cui punto di contatto è costituito da uno spiccato gusto per l’assurdo, incentivato dalla volontà di sdoganare persino la tematica più controversa. E così fino all’esagerazione si estende anche il corpo, un passo estemporaneo alla volta, per emergere dal proprio incasellamento sociale: fuoriuscire dalla propria forma predefinita per riscattare la propria essenza, senza prendersi troppo sul serio. E dunque giocandoci su, ai limiti del grottesco, la compagnia argentina ci esorta a testare i confini di questa nostra società odierna, per chiederci dove finiscono, ma soprattutto verso dove ci porteranno.

Harriet Carnevale


foto di copertina: Magui Pichinini

Un poyo rojo
coreografia Luciano Rosso, Nicolas Poggi, Alfonso Barón
regia 
Hermes Gaido
interpreti 
Luciano Rosso e Alfonso Barón
produttori 
Timbre 4 Buenos Aires, Carnezzeria Srls


Dystopia
drammaturgia Alfonso Barón, Hermes Gaido, Luciano Rosso e Julien Barazer
regia Hermes Gaido
coreografia Alfonso Barón e Luciano Rosso
interpreti Alfonso Barón e Luciano Rosso
musica Alfonso Barón, Hermes Gaido e Luciano Rosso
collaborazione musicale Sebastian Perez e Migo Scalone
video Alfonso Barón, Hermes Gaido, Luciano Rosso e Julien Barazer
montaggio video Hermes Gaido
disegno luci, scenografia e costumi Alfonso Barón, Hermes Gaido e Luciano Rosso
direzione tecnica Vizcaíno
produzione Maxime Seuge e Jonathan Zac per Un Poyo Rojo (FR), Teatro Español di Madrid (ES) e con Carnezzeria Srls (IT)
con il sostegno di Direction régionale des affaires culturelles Occitanie, Spedidam, le Pôle de développement chorégraphique Bernard Glandier – Montpellier, L’Arsénic – Gindou (Communauté de communes Cazals-Salviac), Théâtre Molière Scène Nationale Archipel de Thau – Sète


Questo contenuto è parte dell’osservatorio critico MILANoLTREview