di Sergio Pierattini
regia di Veronica Cruciani
visto al Teatro della Cooperativa di Milano – 22 marzo – 3 aprile 2011

Quando una figlia torna a casa bisogna essere felici. Soprattutto se è passato molto tempo dall’ultima volta che l’hai vista, soprattutto se era così lontana che potevi andare a trovarla solo in rare occasioni. Soprattutto se speri che con il suo ritorno si possa in qualche modo ricominciare, finalmente lasciandosi dietro a marcire un tempo che appartiene a un’altra vita.

Interno domestico, pomeriggio tardi, quasi sera. La donna, intelligente e istruita, siede un po’ sciupata, già stanca prima che qualcosa sia successo. “Avvertirci. Prima. Chiamavi”, attacca la mater familias, e alla prima battuta cominci a orientarti. Famiglia del nord, accento pesante bergamasco, accento sudato del fratello più piccolo, un ragazzotto sui trenta che ha sgobbato tutto il giorno nell’impresa edile di famiglia e ora torna a prendersi il rimbrotto della madre. Papà non c’è. Papà ha cominciato a essere un po’ strano, da qualche tempo, le analisi dicono che va tutto bene ma lui non si lava più e parla da solo.

Comincia così Il ritorno, tragedia già consumata di affetti, incomprensioni, perversioni e sospetti, scritta da Sergio Pierattini. In una famiglia che è anche una comunità chiusa, che difende con i denti la sua identità e delimita il suo territorio così strenuamente da non aver paura di lasciarsi fuori la realtà, la primogenita eletta ragazza modello aveva osato capovolgere la clessidra e far scorrere all’incontrario il mondo che le avevano cucito addosso. Innamoratasi dell’operaio marocchino del papà padrone, ex compagno di lotte sindacali che si è fatto l’impresa di famiglia, prima se lo sposa, poi lo uccide per gelosia e presunto tradimento. Ora, dopo gli anni di galera che si meritava, è tornata libera ed è riapprodata a Bergamo. Tutto è cambiato, ma solo perché è rimasto identico a come l’aveva lasciato.

La trama da melò non inganni: quello di Pierattini, premio della critica come miglior testo nella stagione 2007/08 e finalista al premio Ubu come migliore novità italiana nello stesso anno, è un testo lucidissimo e orgoglioso, che non cade nemmeno per mezza battuta nella retorica anti-immigrazione, nel biasimo genitoriale o nel moralismo piccolo borghese. L’autore scava alla pancia di una famiglia dove la colpa è coltivata come una serpe da far crescere nel seno di ciascuno, perché tutti si ricordino che il destino è una malattia infettiva da cui non si può guarire. In casa non si parla, ci si giudica, non si discute, ci si accusa. Intorno, un senso di minaccia incombente: tutti gli sforzi fatti per incarnare il sogno di una vita – essere un bravo padrone per il padre, diventare una rispettabile famiglia coi soldi per la madre, essere felici con moglie e figlia per il secondogenito – sono destinati a crollare nel fermo immagine finale della separazione.

Superbi gli attori (Milvia Marigliano, Arianna Scommegna, Renato Sarti e Alex Cendron), diretti con raro pudore e compostezza da Veronica Cruciani, per una messa in scena tesa e insieme commovente, come nel monologo del padre-Sarti con la figlia-Scommegna, un incubo di fantasmi e verità che si mischiano nel calderone dei ricordi che non si vogliono ricordare e delle aspirazioni terremotate che non si possono più dire.

Francesca Gambarini