“La mela non cade lontano dall’albero”, “Padre, padrone”, “I figli, son figli”.

La cultura popolare offre un ricchissimo florilegio di detti e proverbi che esprimono con arguzia e immediatezza le delicate sfaccettature insite nei rapporti famigliari. Un argomento spinoso e complesso che fa da filo conduttore a tre proposte in programma al festival “I teatri della Cupa”. Gli spettacoli di Gaetano Colella, Roberto Corradino e Danilo Giuva, seppur da prospettive differenti, lavorano sulla complessità del tema con affondi tutt’alto che scontati sui nodi più problematici del rapporto con i genitori.

La prima delle tre opere è Icaro caduto di Gaetano Colella (potete leggere qui l’articolo di Maddalena Giovannelli pubblicato su Stratagemmi), per la regia di Enrico Messina. Icaro, sopravvissuto suo malgrado all’esperimento paterno e costretto in un corpo totalmente paralizzato, svela il suo imprinting dedalico non appena apre bocca: le sue parole si dispongono spontaneamente in un virtuoso susseguirsi di endecasillabi, versi che tradiscono una cogente e straordinaria curiosità verso il mondo.

Lo slancio vitale di Icaro verso la conoscenza, violentemente castrato dalla capricciosa ambizione di un padre tale e quale a lui, per anni ribolle insoddisfatto in un’asfissiante inerzia, sfigurandosi fino a tramutarsi in pulsione parricida.

La fantasia della vendetta sfiorisce quando il protagonista incontra Dedalo in persona, un uomo che non regge il confronto con l’idealizzazione ossessiva del figlio: il grande artefice del Labirinto trascorre una senilità indecorosa e solitaria, che gli vale una pietosa assoluzione.

Un altro figlio che deve fare i conti con l’irrisolto transgenerazionale è il protagonista di Parla con mia madre. Roberto Corradino dialoga con una figura (Teresa Ludovico) tanto evanescente quanto emotivamente ingombrante, che impersona l’influenza psichica della mater interna di ciascuno: una triplice entità che riassume i tratti della mamma vera e propria, della nonna (in quanto mamma della mamma) e della Madonna, proiezione sacrale della maternità.

Il rassicurante, esclusivo conforto dell’affetto materno, sembra dirci Corradino, è l’unico aspetto positivo di una relazione coercitiva: il dialogo madre-figlio è irriducibilmente stentato, opaco, prepotente. Lo sguardo miope di una mamma che lotta a tutti i costi per la sopravvivenza della sua prole la rende incapace di rispettare gli spazi, l’intimità, l’arbitrio filiali.

Parla con mia madre racconta come questa ingerenza non cessi neppure post mortem: i consigli, le ammonizioni e i rimproveri della donna influenzano l’umore e le scelte del protagonista anche dopo decenni dalla scomparsa della mamma in carne e ossa.

Il finale dell’opera, però, ci rassicura: l’emancipazione è possibile, ma solo scegliendo di dismettere il conflitto e l’idealizzazione. Un figlio è finalmente libero quando accetta di ridimensionare colei che lo ha messo al mondo, accogliendone la fallibilità.

Mamma di Danilo Giuva porta avanti un’analisi di segno affine spostando l’asse dell’osservazione dal particolare all’universale, attraverso la giustapposizione di più racconti.

L’attore rintraccia nella drammaturgia napoletana di Annibale Ruccello (Mamma. Piccole tragedie minimali, 1986) il materiale adatto a dar voce a un’urgenza personale: raccontare la “ferocia materna”, cui ogni donna è potenzialmente incline, e che – dati determinati presupposti ambientali – ha il potere di annientare la sua discendenza, psicologicamente ma anche fisicamente.

Giuva si impegna per lungo tempo in un attento e delicato lavoro da dramaturg sul testo napoletano. L’opera ruccelliana si compone di quattro monologhi: Catarinella e il principe serpente, Maria di Carmelo, Il mal di denti e La telefonata. Il primo episodio, che narra lo spensierato matricidio di un’aspirante principessa d’altri tempi, preannuncia con pathos fiabesco una visione cruda e dissacrante della relazione madre-figli. La quadrilogia si dipana poi accogliendo mano a mano numerosi riferimenti alla subcultura mediatica degli anni ottanta, di cui si nutrono sconsideratamente le madri protagoniste degli ultimi monologhi, con evidenti ripercussioni sulla qualità del loro accudimento (a partire dalla curiosa onomastica che invade la Napoli dell’epoca, culla di bambini battezzati Romina, Maurizio e Costanzo, irrimediabilmente abbandonati davanti al televisore).

Danilo Giuva riadatta l’opera di Ruccello alla propria esigenza espressiva rinunciando a molti di questi riferimenti: il focus antropologico dell’autore napoletano viene ricalibrato in senso più strettamente psicologico. L’inerziale dipendenza dal televisore è solo uno dei tratti delle madri che si avvicendano sul palcoscenico; e più che causa del loro abbrutimento, questa abitudine risulta la conseguenza della frustrazione che accomuna le protagoniste: donne giovani, economicamente e socialmente dipendenti da un marito disinteressato e anaffettivo (quando c’è) che delega loro la cura di proli numerosissime partorite perché così va il mondo.

I risultati di una simile pedagogia sono tanto prevedibili che la rappresentazione dei figli, destinati senz’altro ad assimilare lo scontento materno e a introiettare un’idea squallida del mondo, è lasciata all’immaginazione del pubblico.

L’attore riscrive il testo di Ruccello – con l’aiuto della sua mamma! – in foggiano, nonostante egli abbia più confidenza con il dialetto barese: foggiani sono i suoi genitori e i suoi antenati più prossimi, e Giuva sfrutta questo dispositivo linguistico per conferire spontaneamente ai personaggi che interpreta i tratti espressivi propri dei famigliari che affollano il suo bagaglio memoriale.

L’episodio Il mal di denti, che vede protagonista una madre rude e sboccata, inconsapevole del potere delle sue parole capaci di disintegrare la figlia con ingenua ferocia, viene ricollocato alla fine dell’opera; il tragico epilogo, amaramente accompagnato dalle note melense di una canzone di Al Bano e Romina, conferma retroattivamente i sospetti del pubblico sugli esiti fatali di ciascuno dei quattro siparietti.

Colella, Corradino e Giuva, pressoché coetanei e provenienti da ambienti e percorsi creativi indipendenti, scandagliano con sguardo lucido e disincantato un terreno intimo, che riguarda profondamente, e senza esclusioni, ogni essere umano; ciascun allestimento è coerentemente scarno di elementi scenografici, che rischierebbero di connotare quest’indagine in senso personale, biografico. D’altra parte la coerenza drammaturgica delle opere di questi artisti sottende – in modo non descrittivo – dinamiche famigliari indagate dalla psicologia del secondo Novecento; rapporti causa-effetto che sembrano ormai collettivamente acquisiti e assimilati, e che riescono quindi a toccare la coscienza del pubblico con potenza archetipica.

Chiara Mignemi

 

Icaro caduto
scritto e interpretato da Gaetano Colella
regia di Enrico Messina

Parla con mia madre
scritto e diretto da Roberto Corradino
con Roberto Corradino e Teresa Ludovico

Mamma
scritto, diretto e interpretato da Danilo Giuva
tratto da Mamma. Piccole tragedie minimali di Annibale Ruccello