Lo spazio scenico precede e accoglie lo spettatore, che ancor prima di trovare il proprio posto, viene immerso in un ambiente definito da oggetti collocati in maniera affatto casuale.Lo scenario è quasi chirurgico: due pali obliqui di led e un fondale di cellophane contornano una composizione di acciaio e  verde artificiale, illuminata di un bianco asettico. Una figura distaccata e indifferente finisce di posizionare gli ultimi dettagli; di sottofondo, un lontano canticchiare di volatili esotici.La narrazione coreografica inizia prima della danza per Andrea Pena: giovane artista colombiana basata a Montreal, i suoi lavori sono riconosciuti su scala internazionale per l’innovativa creazione di mondi performativi che interrogano l’individuo e la società. Il suo Queer Garden Eden accompagna il pubblico in un vero e proprio attraversamento, ponendolo di fronte a una prova di empatia non semplice. Calano le luci, un profondo rumore disturbante precede la comparsa di due corpi semi nudi, tatuati, potenti: lei giunonica Eva distopica, lui ercoleo Adamo frenetico. Una coppia di fisionomie in perizoma, ginocchiere e sneakers nere rivela il carattere androgino di entrambi al primo duetto: tra il mescolarsi di  prese e  di leve si annulla ogni  “Lui/Lei” riconoscibile.
Il superamento dell’identità di genere dà il via, nella simmetrica e concentrica corsa dei due, a una spirale di sperimentazione dell’immaginario magistralmente affrontata e abitata dai movimenti e dai gesti dei danzatori. La loro danza è concreta e incarnata: non è né un vuoto esercizio stilistico, né a servizio di una degustazione coreografica per palati patinati. Si partecipa a una struttura semi-aperta regolata dalla trasformazione, dalla ripetizione puntuale e dalla cruda e reale relazione tra corpi, oggetti e spazio. Lo sguardo fa tutt’uno con il movimento e l’espressione gelida, a tratti subumana dei volti non lascia indifferenti. La danza è manifesta nel corpo. É presenza costante. La tecnica tralascia la finalità esecutiva, è uno strumento affinato dai danzatori per essere in questa pienezza e sostenere con qualità l’arduo compito di «hold the space, the presence, the tension», come commenta uno dei danzatori all’uscita dal teatro. 
L’utilizzo del gesto ripetuto, così come il ciclico ritornare alla dinamica dell inconto/scontro,  danno una rappresentazione del tema indagato – da cui il titolo – rispetto al fascino e all’ossessione per la replica nella società odierna. Ma a quale prezzo? L’universo queer come universo replicante, coinvolge l’osservatore nella distorsione e nel ribaltamento delle categorie. Il disegno luci, tagliente nella sua semplice funzionalità, unito all’oscuro e ben prodotto soundscape elettronico, supportano questo laboratorio dove l’umanità viene vivisezionata, dove Dio è uno stroboscopico calo di tensione elettrica e il sacro Rinascimento viene celebrato da un’Ave Maria in white-noise e da un paio di stivali di gomma pieni d’acqua. Più la fisicità degli oggetti entra a far parte della danza e più si fa strada il Perturbante, riuscendo a decostruire il simbolico. La riconoscibile neutralità di intenti o giudizi, unita all’organicità, all’essenzialità e alla consapevolezza del gesto danzato, rendono lo spettacolo un’opera intelligente e affilata, un’occasione per il pensiero critico di interrogarsi sulla solidità dell’Io.
Inesorabile, precisa e pulita, la performance nega allo spettatore la confort zone della distanza e lo riporta a Teatro, il luogo delle possibilità, dove la Danza ci guarda, parla e contatta personalmente. Forse è questo il senso sottile a cui vuole alludere l’epilogo, a cui lo sguardo viene accompagnato in modo onesto e schietto? Quando cade l’ultima barriera, quando anche l’ultimo velo viene svelato, cosa ci resta se non la verità più intima e fragile? E di fronte a quella, siamo tutti e tutte davvero nudi/e. Buio. Ritorna il sereno canticchiare esotico.  Il pubblico è diviso all’uscita di questo Eden 2.0, ma ha incontrato qualcosa.
Oltre alla puntualità delle scelte nelle immagini, spaziali e tecniche, emerge un’estetica tracciabile, un gusto underground, tradotto e proposto con notevole maturità creativa e stilistica. Testimone del suo tempo, il lavoro di Andrea Peña offre una direzione alla danza contemporanea, come linguaggio espressivo in ascolto, introducendo nella propria scrittura una nota di istantaneità e libertà che rende il danzatore partecipe e integrato.
Per scoprire che, da vicino, ogni Replica è unica.

Sara Ubbiali

foto di © Jeanne Tétreault

Replica
ideazione, direzione artistica e coreografia Andrea Peña
coreografia in collaborazione con Frédérique Rodier, Marco Curci, Jean-Benoît Labrecque and James Phillips.
  con Frederique Rodier and James Phillips.
assistenze alla coreografia Francois Richard
consulente alle prove Emily Gualtieri
musiche originali Eƨƨe Ran
disegno luci e drammaturgia visiva Hugo Dalphond
designer luci Olivier Chopinet
scenografia Andrea Peña, in collaborazione con Jonathan Saucier
responsabile di produzione Isabella Salas
tour manager Isaïe Richard
direzione tecnica Vladimir Cara
co-produzione Teatro Nuovo Napoli, Rum för Dans, Region Halland, Teater Halland, Hallands Konstmuseum, Kungsbacka Teater, Baerum Kulturhus, Agora de la danse, Circuit-Est centre chorégraphique

Questo contenuto è esito dell’osservatorio critico dedicato a MILANoLTREview 2025