Una loop station, una bottiglia di alcol, un palcoscenico disseminato di fogli accartocciati. Basta un colpo d’occhio per intuire la componente dissacrante e spiazzante di UMANƏ, spettacolo firmato da Camilla Violante Scheller, in arte Navëe, in scena al Cascinet all’Ortica. La performance si fonda su un impianto scenico essenziale, quasi didattico: in piedi dietro la consolle, l’artista – insieme DJ, sacerdotessa e docente in cattedra – stratifica suoni, genera echi ossessivi, incide nella mente del pubblico un immaginario tanto acustico quanto ideologico.
Attraverso un linguaggio ibrido che intreccia prosa, canto e tecnologia, Navëe decostruisce il concetto di “umanità”: ne interroga le radici etimologiche, ne scardina i presupposti culturali, ne espone i luoghi comuni. Frantumata la narrazione idealizzata dell’umano, lo spettacolo ne disvela le ambiguità, riportando alla luce una materia concreta e contraddittoria. Già il titolo – scritto con lo schwa – è una dichiarazione d’intenti: un rifiuto della dicotomia maschile/femminile e delle norme sociali che la cultura codifica, riproduce, impone.
Il processo di “disumanizzazione” messo in atto si attua, anzitutto, attraverso la manipolazione e la deformazione della voce. Delay, saturazioni e distorsioni piegano il suono ai limiti del possibile, facendo scaturire un paesaggio sonoro frastagliato, fatto di orgasmi, preghiere, vocalizzi, invocazioni, silenzi. La voce diventa ora cupa e meccanica, ora ariosa e sensibile, segnale intermittente di un “umano” smontato pezzo dopo pezzo, ridotto a traccia, eco, scoria. Frammentato – e mai banale – è anche il reticolo tematico che attraversa senza gerarchie flatulenze, masturbazione, depressione post-orgasmo, morte, apatia. UMANƏ si muove tra slanci lirici e immagini disturbanti, tra intensità poetica e concretezza fisiologica, rifiutando ogni narrazione levigata per restituire un corpo reale, vulnerabile, talvolta indecente.
Su questa fragilità si innesta una critica netta alla cultura della prestazione. Navëe smaschera il mito dell’autoaffermazione – ciò che il sociologo Byung-Chul Han ha definito “società della positività” – dove ogni fallimento è attribuito all’individuo, e ogni sofferenza interpretata come difetto di volontà. In questo sistema, l’umano si logora nel tentativo di coincidere con un ideale di efficienza irraggiungibile.
«Io vorrei compiere un atto rivoluzionario, ma non ci riesco. Quindi non disturbo, mi masturbo», afferma l’artista. La frase – sussurrata, armonizzata e poi rilanciata con feroce ironia – condensa uno dei nuclei dello spettacolo: il senso di inettitudine e di impotenza che attanaglia il genere umano. Non si tratta di una semplice fragilità individuale, ma di una condizione strutturale: l’umano è ontologicamente incompiuto, imperfetto, incoerente.
D’altronde, sebbene il testo sollevi una costellazione di questioni – dal linguaggio all’identità, dalla sessualità alla violenza –, lo fa senza la pretesa di offrire risposte, né tantomeno di attivare dinamiche consolatorie. Lungi dall’indicare precise vie d’uscita, la performance di Navëe è piuttosto un’esposizione lucida e disincantata del disagio contemporaneo: una confessione che si fa sfogo, risonanza amplificata di una sofferenza ineluttabile. È in questa consapevolezza, priva di appigli salvifici, che si manifesta forse la funzione più autentica dell’arte: non trasformare il reale, ma renderlo attraversabile. Non promettere un cambiamento, ma generare una catarsi che nasce dal riconoscimento del dolore, dalla sua condivisione, dalla sua traduzione in forma.
Alessandro Stracuzzi
immagine di copertina: foto di Alessandro Villa
UMANƏ (UNAS PERFORMANCE PER FARE COSE E VEDERE GENTE!)
di e con Camilla Violante Scheller
un concerto-spettacolo di Navëe
Spettacolo vincitore del Premio della critica 2025
La recensione fa parte dell’osservatorio critico dedicato a FringeMI Festival 2025