Due attraversamenti della mostra VIVONO Arte e affetti, HIV-AIDS in Italia. 1982-1996
Intervistato sulle frequenze di Rete Toscana Classica, Michele Bertolino, curatore di VIVONO Arte e affetti, HIV-AIDS in Italia. 1982-1996, al Centro Pecci di Prato fino al 10 maggio 2026, afferma che la mostra è nata dalla necessità di raccontare quegli artisti che all’epoca avevano venti o trent’anni. Ragazzi e ragazze che, pur vivendo nello stigma della malattia, si divertivano e volevano continuare a farlo: raccontare quel periodo come un lungo intervallo di sola sofferenza non avrebbe reso loro giustizia. Da qui l’idea di «provare a raccontare quegli anni attraverso una lente di luce, gioia e amore, che pur nel dolore sono [elementi] rimasti molto presenti in chi quelle situazioni le ha vissute».
In Libretto Gioiattiva, la gioia, e conseguentemente la luce e l’amore, sono il motore delle azioni di Nino Gennaro, l’unico modo di approcciarsi con sincerità all’esistenza. Libretto Gioiattiva viene redatto a mano dal drammaturgo siciliano durante gli ultimi anni della malattia (muore a Palermo nel 1995); ne realizza oltre duemila copie che poi regala ad amici e conoscenti: è una composizione di poesia visiva la cui origine si trova in quei block notes in cui il drammaturgo soleva copiare alcuni dei suoi aforismi, in un «esercizio manuale che chiamava “puntina spirituale”», ricorda l’amico e compagno di teatro Massimo Verdastro. Nell’introduzione a Teatro Madre (2005), edito da Editoria e Spettacolo e curato dallo stesso Verdastro, si legge che Gennaro definiva i suoi testi come “teatrosi”, ovvero scaturiti da una condizione patologica e degenerativa legata all’eccesso di teatralità. «Una scrittura fatta di parole che reclamano un corpo», che hanno un bisogno primigenio di farsi carne, di essere lette, declamate. Sono grida su carta. Secondo Goffredo Fofi, le parole del drammaturgo siciliano «esigono lo scavo e la cernita operati da un corpo e da una voce d’attore che possano liberarne la forza». Gli scritti di Gennaro sono sempre sovraccarichi di ripetizioni, portati all’eccesso da una «scrittura incontinente», mai portata a compimento. Sono bloccati in un «una dimensione obbligata di incompiutezza, come se l’incompiutezza della sua esistenza si riverberasse su quella dell’opera», prosegue Fofi.

Flyer “STOP AIDS, PREVENZIONE”, Centro di documentazione “Flavia Madaschi” – Cassero LGBTQI+, Bologna / Foto di Marco Sanna, Fondo Marco Sanna – Circolo di Cultura Omosessuale Mario Mieli, Roma. Elaborazione grafica dell’immagine: Axis Axis
Libretto Gioiattiva non fa eccezione, qui l’elemento aforistico è costante. Le frasi, scritte in stampatello, sono accostate l’una all’altra senza soluzione di continuità e, solo all’occorrenza, vengono separate da spazi ampi e quasi mai rigorosi. Amore, calore, luce, vita e gioia, piccoli disegni stilizzati e la firma in basso a sinistra Sunson figlio del sole sono i primi segni tracciati sul libretto, che sanciscono i temi presenti all’interno di quelle piccole pagine a quadretti. Proseguendo nella lettura si ha l’impressione che quelle parole, benché incomplete, reclamino sì un corpo – come scrive Fofi – ma anche una voce in grado di sussurrarle, in solitudine magari, come si fa col libro di preghiere accanto al letto. Invece là sulla pagina bianca di Teatro Madre le parole sono come incarcerate, modificate per la veste editoriale, tradite nella loro funzione originaria di un dono in amicizia, denudate per essere date in pasto al pubblico.
Michele Bertolino conferisce loro il giusto spazio, proietta le pagine dei block notes per intero, sul muro bianco, le accosta in un gioco di luce e ombra all’interno di un ambiente familiare: la riproduzione di un salotto casalingo, quello di Nino Gennaro a Palermo. La sala diventa un’estensione dell’opera originale, senza l’imposizione di una direzione predeterminata; non c’è un racconto lineare da seguire, ci si siede in solitudine o accanto all’avventore sconosciuto, si leggono le parole di Gennaro, si osservano le foto, e inaspettatamente ci si sente parte di una comunità.
Tommaso Quilici
Fate che le vostre case siano luoghi di ascolto per i figli del mondo.
Se altre case prima della vostra non vi avessero accolto che ne sarebbe di voi ora? E se non vi avessero ascoltato per giorni e notti che ne sarebbe di voi ora? Morti o tristi o stanchi non avete ricominciato a vivere o non vi siete sentiti rincuorati o riposati dopo ore ore ore e ore di ascolto? Di venire ascoltati fino al sacrificio? Pure quando non parlavate? E anche quando nessuna casa prima della vostra si fosse mai messa ad ascoltarvi sarebbe un motivo sufficiente questo per non cominciare voi? Non riducetevi mai a questa povertà di iniziativa! Non sentite un bisogno totale? Ci sarà sempre qualche folle che vi vuole dare. Siate sempre pronti a ricevere. Fatevi folli pure voi!Se io ti ho rattristato come mi puoi tu rallegrare? Tu che sei il mio bene il mio amico? Quante volte ti ho rattristato e mi hai reso tristezza per tristezza! Siamo collaboratori della nostra gioia!
da L’elogio del plurale, gennaio 1992
Attraversando la sala numero 6 osserviamo la nostra figura moltiplicarsi sulla superficie di una struttura riflettente, mentre nell’aria risuona echeggiante la voce di Patrizia Vicinelli, che udiamo recitare le sue poesie in tutto la loro fisicità. Lasciamo gli armadi specchiati e approdiamo in salotto, una grande sala museale resa salone. Divani tappezzati di un misto cotone-lino color ecru: ora avorio, quando toccati dalla luce delle proiezioni, ora grigiastri se lasciati sprofondare nel semibuio spezzato soltanto da luci soffuse. Alle pareti lampeggiano ritmicamente poemi poemetti appunti e fotografie. Sembra quasi di trovarsi in un cineforum, dove i gusti degli avventori divergono a tal punto da richiedere che ogni angolo venga dedicato a una diversa visione. I proiettori di diapositive sparsi per la sala stagliano, sui muri di questo salotto dai soffitti altissimi, rettangoli di carta scritti a mano, ed è come se leggendone il contenuto una voce gioiosa e dal marcato accento siciliano li recitasse per noi.
Siamo a casa, a casa di Nino Gennaro.
E da Prato sbarchiamo nel rumore vivo del centro storico di Palermo, quartiere Castellammare, e ci infiliamo in una casa d’artista al contempo teatro ma soprattutto rifugio. Dimora di anime affini, votate alla giustizia e bisognose di una comunità estranea all’alleanza mafio-capitalistica.
Nella Sicilia pavidamente reazionaria degli anni Settanta Nino Gennaro si fece corpo, ed emittente, di verità e rivoluzioni affannosamente inseguite dai reietti e dagli umani di seconda classe, che con Nino ebbero finalmente una voce, aspra e penetrante. Nino Gennaro decolonizzò università, biblioteche e discoteche, a suon di testi dissacranti, urgenti e contaminati dalle parole di amici, compagni e spettatori; la sua poesia non si esauriva nella mera dimensione intellettuale, ma si tramutava in una danza comunitaria priva di spazi a essa votati, di impianti scenici e di illuminazione, ma ricca di coscienza politica e sociale, resa incendiaria dallo zelo giovanile che abitava le anime e i vissuti dei partecipanti. Questo il suo Teatro Madre, teatro di lotta di classe e di strada che si faceva casa, calda e accogliente come l’idea del materno tanto cara e struggente per Gennaro. Nino Gennaro si fece casa, a Palermo come in queste pareti museali, ospitando, metaforicamente e non, istanze e corpi troppo spesso inadatti, troppo repulsivi e fuori luogo per la città, che invece omogenizza, cataloga e disperde.
Tutta la mia vita, tutta la mia produzione, vogliono dire e dicono dei nostri territori-corpi colonizzati da fascismi, mafie, clericalismi, oppressioni-repressioni e di lotta senza quartiere per dis-interiorizzare, non collaborare. Perché il capolavoro di ogni potere è rendere labile o annullare i confini tra vittima e carnefice, farti complice del suo dominio, della sua logica di dominio. Mondo di lutto, di sottomissione, di psicofarmaci, di miseria e di morte. Ripeto, io dico no, Marco, a questa morte!
da una lettera a Marco Palladini, 1984
Il dispositivo più efficace per contrastare il potere costituito, in tutta la sua illegittimità e corruzione, il poeta attivista amico Nino Gennaro lo trovò, ricercandolo durante la sua intera esistenza, nell’amore. Nell’amore per Maria Di Carlo, compagna di vita e di intenzioni; per Massimo Verdastro; caro amico, interprete ed erede unico delle sue opere; per la scrittura, quella fatta con carta e penna; per gli ideali abitati con forza per tutti i suoi 47 anni, e soprattutto nell’amore per la vita, e ciò che aveva da offrire, morte e malattia debitamente incluse.

sx: Vittorio Scarpati, Untitled (Love is the Liberator), 1989, inchiostro su carta
dx: Vittorio Scarpati, Untitled (Steamroller), 1989, inchiostro su carta
Nino Gennaro aveva sempre bene a mente la morte, e forse per questo amava la vita con tanto ardore e dedizione; tanto da compilare a mano centinaia di libretti spirituali colmi di appunti e poesie liete e consapevoli, seppur a tratti dolorose, da regalare ai suoi amici. Numerosi sono gli aforismi appuntati da Gennaro nel Libretto Gioattiva: uno dei più citati e ispiratori recita il monito «o felici o complici». L’antagonista non è tanto la morte – sempre presente a Gennaro anche in vita («la vita vale quanto facciamo valere la morte») – bensì il sistema morte, inteso come biopotere capace di legiferare di e sui corpi, al quale più o meno consapevolmente obbediamo, consentendogli di esistere attraverso la nostra cieca complicità.
La
colpa di
vivere
AIDS
la colpa
di
viverela colpa di vivere
malattia e morte
ammalarsi e morire
è colpa di vivereniente colpa
niente malattia e
morteirriducibilità
eternità
salute
è
innocenzasi è innocenti
e si è sanisi è innocenti
e si è invincibiliirriducibili
eterni
innocenti
sani e
invincibilichi sa questo e non
vuole che tu viva
ti incolpachi non ha
consapevolezza
ha il ruoloesempio:
una madre inconscia
non ti vuole
e ti incolpa
perché vuole
che tu muoriper non morire
tu la devi uccideremiliardi
se ne sanno
di questi
casila
fine
che
non
ho
fattoda Libretto Gioattiva, fine anni ‘80 inizio anni ‘90
Per Gennaro la malattia è «una grande medicina»: inverte così il credo dominante per cui la cura salva, e la malattia ammazza. La malattia mostra, in tutte le sue crepe, la società moderna nella sua dimensione di sistema di cura, di apparato che si fonda sulla conservazione e sulla riproduzione dei corpi. Gennaro nei suoi scritti svela quindi il potere, in ottica foucaultiana, non solo come esercizio di sovranità sulla morte, ma come meccanismo di regolamentazione della vita, orientato al controllo della popolazione e alla standardizzazione dei comportamenti. È perciò facile scorgere, tra le righe dei suoi calligrammi serrati e vorticosi, lo slancio di Gennaro nel sollevare i corpi malati dalla colpa primigenia di cui vengono culturalmente investiti. Susan Sontag, in quegli stessi anni di caccia all’untore, ricorda come non tutto abbia necessariamente un significato, e come accanirsi nel ricercarne uno all’interno del contesto della malattia riveli, oltre che un ottuso bisogno di razionalizzare il reale, la grande natura moralistica della società moderna.
Gennaro rigetta a suon di versi gioiosi quell’immaginario colpevolizzante che vuole il malato, in special modo di AIDS, come carnefice di sé stesso; la sua stessa vita, il suo stesso corpo sono stati conferma, per i benpensanti, che la degenerazione in vita conducesse a un meritato contrappasso letale. Se «malattia=morte», la vita frapposta fra un momento e l’altro diventa colpa da espiare, corpo da eliminare, esistenza da cancellare.
Eppure per Nino Gennaro quella stessa degenerazione è stata la fonte primaria, e forse unica, di amore.
Nel contesto di una società individualista e stigmatizzante, terrorizzata dal contagio non solo biologico ma anche culturale, quelle stesse istanze comunitarie raccontate nei suoi scritti e nel suo teatro ci aiutano a riconoscere l’altro. Ci insegnano ad abbandonare la pratica capitalistica che relega l’altro, soprattutto quando improduttivo, ai margini, seppellendone il corpo al di fuori delle mura, ove la morale, avida di colpa e punizione, non arriva più; ci invitano a celebrare con gioia, così in vita come in morte, i crucci dell’anima e del corpo.
Desideria Lavarda
in copertina: Centro Pecci, foto ufficio stampa
HO UN PROGETTO: INCLUDERVI
Massimo Verdastro racconta Nino Gennaro
di e con Massimo Verdastro
con i contributi video di Silvio Benedetto, Nico Garrone e Pippo Zimmardi
Questo contenuto è parte dell’osservatorio critico Officina Critica #3