da Bilal-Viaggiare, lavorare, morire da clandestini di Fabrizio Gatti
regia di Annalisa Bianco
visto al teatro Elfo Puccini di Milano_dal 5 al 10 aprile

Nella serie ‘Nuove storie’, dedicata a portare in scena spettacoli in bilico tra l’esperienza individuale e i cambiamenti epocali che condizionano la nostra visione del mondo, il teatro Elfo Puccini ha inserito un monologo di denuncia, che ha come base narrativa i coraggiosi reportages pubblicati ormai otto anni fa dal giornalista dell’’Espresso’ Fabrizio Gatti. Bilal. Viaggiare, lavorare, morire da clandestini (Rizzoli, 2008), questo il titolo del libro di Gatti, che si infiltrò tra i migranti e con loro visse il viaggio dall’Africa alle coste italiane attraverso il Sahara. Nella riduzione teatrale il titolo cambia (Bilal – Nessun viaggiatore è straniero) ed universalizza oltre che attualizzare il testo: il cambiamento suggerisce infatti che la questione non è solo l’odissea di questi esseri umani per usare un termine del nostro immaginario ormai decisamente eufemistico ma si sposta sulla necessità dell’accoglienza, perché nessuno di questi viaggiatori coatti, obbligati ad andare via dalla loro terra e dai loro affetti, può essere considerato uno straniero da respingere. Noi siamo la loro méta, e poiché non possono tornare indietro devono vivere con noi, smettendo così di essere stranieri.

Il viaggio dall’Africa all’Europa significa esperienza di una serie di orrori, ormai lo sappiamo. La natura e i suoi ostacoli si rivelano infinitamente meno feroci dell’uomo nemico, torturatore, stupratore, assassino. In quei viaggi, la vita conta per quanto si può pagare e, quando i soldi sono finiti, non conta più nulla. I sopravvissuti arrivano da noi spogli di tutto, nuda vita destinata a nuove umiliazioni nei nostri centri di raccolta, ‘i lager della fortezza Europa’. Sono esseri senza destino, coloro che approdano finalmente da noi, e non si ricorderà mai abbastanza che abbiamo verso di loro il dovere morale dell’ospitalità, per una legge non scritta superiore a qualsiasi legge degli Stati.

La domanda che qui ci interessa è se di questo evento storico si possa fare un’esperienza estetica. Lo spettacolo Bilal ci prova. Leonardo Capuano, unica voce che intreccia le storie, è bravissimo: sa dare corpo ed espressione teatrale a un testo che non è stato scritto per il teatro; la sua è un’interpretazione partecipata, ai limiti della commozione, ma senza retorica declamatoria. La voce asciutta rievoca la fuga, la persecuzione, la prigionia nelle gabbie libiche, diventa testimonianza attonita di pestaggi e omicidi ai danni dei suoi compagni di viaggio, di abbandoni nel deserto. Capuano racconta la disumanità e porta a termine la propria catarsi. Il mestiere di attore, la necessità di immedesimarsi nei protagonisti, diventa un percorso purificatorio di riflessione e autocoscienza.

Ma noi? È vero: noi siamo coinvolti sin dall’inizio dello spettacolo, quando in scena appare un uomo avvolto nella coperta termica, accecato da un faro, e, nel buio, si sentono le urla in italiano e siciliano dei soccorritori. Dunque: Bilal sarebbe qui, tra noi. Eppure: noi sediamo in teatro come spettatori, applaudiamo, consideriamo la prova di bravura dell’attore e l’essenzialità suggestiva della messa in scena. Questo teatro di denuncia sa di amaro, ci è difficile accostarlo ai monologhi del teatro politico dello scorso secolo sulle stragi di casa nostra e sul terrorismo. Lo spazio di ambientazione ci è distante ed estraneo, i contesti culturali risultano davvero complessi e stranianti, come in un horror. Rischiamo forse di perdere la realtà? Il racconto genera certamente emozioni; si tratta di quella ‘compassione’ in cui Aristotele vedeva uno degli effetti della tragedia, l’eleos che i tedeschi traducono con Mitleid, ‘compassione’, ‘il soffrire insieme’ all’eroe tragico, associata sempre alla paura, al terrore egoistico che sarebbe potuto accadere a noi, se fossimo nati lì e non qui. Ma poi battiamo le mani e torniamo alle nostre case borghesi, più pensierosi, di sicuro, ma immutati.

Cosa voglio dire? Che lo spettacolo diretto da Annalisa Bianco, con il supporto di luci e suoni di Andrea Guideri e l’assistenza tecnica di Simona Parravicini, va considerato certamente uno spettacolo riuscito che, grazie anche alla maestria di Capuano, ci tocca nell’intimo: ma quel che conta ha inizio proprio dopo gli applausi, nel doverci chiedere in ogni istante cosa facciamo in prima persona di fronte a questa immane tragedia che è la tragedia per antonomasia del nostro tempo. Non è più il momento, per il teatro e per l’arte in generale, di barricarsi nel sublime dello spettatore che assiste al sicuro sul suo scoglio ai naufragi altrui. Lì dove termina la dimensione estetica, il piacere di assistere ad eventi tragici, comincia, adesso più che mai, la dimensione etica, l’impegno civile.

Se l’arte si è dovuta porre il problema della possibilità della poesia dopo Auschwitz, adesso deve porsi la questione della capacità di intervenire e non solo di raccontare. Ben venga, dunque, il teatro etico come questo, che si associa del resto ad altri esperimenti vecchi e nuovi (ad esempio Rumore di Acque  di Marco Martinelli, oppure l’intensa Trilogia del naufragio di Lina Prosa, il cui secondo episodio sta per andare in scena al Piccolo Teatro). Ma non basta: bisogna trovare vie non solo di espressione e rappresentazione, ma di azione concreta e intervento. Non basta più, insomma, porre domande, si devono trovare risposte e soluzioni. In qualche maniera, è necessario superare il documento, andare oltre la parola anche con la parola, ma non solo. Una provocatoria autrice di teatro, Elfriede Jelinek, negli ultimi tempi propone, con l’autorevolezza da premio Nobel, un testo fiume, destinato al teatro, su ‘coloro che sono obbligati a chiedere asilo’: Die Schutzbefohlene. Un titolo questo che in tedesco rovescia quello della prima tragedia occidentale che ha al centro una storia di persecuzione collettiva e le voci di donne profughe (le Supplici di Eschilo in tedesco: Die Schutzflehende), e di cui una parte è stata vista l’anno scorso in scena a Bologna per la regia di Claudio Longhi. Elfriede Jelinek, dunque, ha scritto: “Ciò che rimane non lo creano i poeti. Ciò che rimane è via”. La Jelinek spezza un noto verso di Hölderlin,:”Ciò che conta lo fondano i poeti”, un verso che non vale più, che non vale più già almeno da dopo Auschwitz, a meno di non considerare la Shoah conseguenza estrema di quel che ha fondato la poesia occidentale. È tempo che la letteratura (e la scrittura drammatica in essa) insegua quell’altrove nel quale sta la realtà che non si piega ad essere oggetto di mimesi.

Mentre all’Elfo andava in scena Bilal, a Vicenza, nel teatro Olimpico, si svolgevano una serie di incontri che ragionavano sul tema dell’accoglienza e della migrazione, collegando le culture antiche con la più stringente attualità: Classici contro 2016. Xenia. Migranti, stranieri, cittadini. La cultura europea per l’ospitalità tra i classici antichi e il presente, progetto a cura dei grecisti Alberto Camerotto e Filippomaria Pontani, dell’Università Ca’ Foscari di Venezia (qui i materiali). Lì, in un inglese emozionato e in un italiano spaventato, due ragazzi hanno raccontato la loro disperata odissea attraverso gli stessi luoghi e lo stesso inferno in cui ha navigato ‘Bilal’. Non si è trattato di uno spettacolo, nonostante la nobiltà e la maestosità del luogo: eppure alle loro parole il numeroso uditorio ha provato ‘pietà e terrore’ ed ha finalmente esperito quella catarsi che, come voleva Friedrich Schiller, significa giungere alla consapevolezza della propria libertà di scelta, da attuare, a sipario chiuso, con l’azione concreta, giorno dopo giorno. Quella catarsi è lo scopo del teatro tragico: solo così il teatro diventa e non può che diventare, come diceva ancora Schiller, la massima delle ‘istituzioni morali’.

Sotera Fornaro