Il bisogno di connessione e riconoscimento della scena teatrale under 35, la necessità di creare una rete che possa costituirsi come un riferimento costante e a cui poter tornare vengono accolti dal Festival Canile Drammatico, catalizzatore di incontri tra artisti e artiste ospitati con i loro lavori, ma anche di compagnie, altri festival e associazioni invitate a prendere parte alle attività programmate, ai momenti di incontro e riflessione condivisa. Così la rassegna promossa dalla Fondazione Federico Cornoni in memoria del giovane attore parmense prematuramente scomparso nel 2023 offre alla scena emergente l’opportunità di esporsi, riconoscersi e dar vita a nuove forme di dialogo collettivo. Sotto la guida del direttivo artistico composto da Rita Di Leo, Gabriele Anzaldi, Giorgia Favoti e Simone Baroni, il Festival ha scelto quest’anno la comicità come chiave di lettura, come suggerisce il titolo A denti stretti: la risata non come atto sterile di evasione o distrazione, ma come modo per dissentire, per provocare e stimolare un pensiero critico, un vero e proprio atto politico.
Abbiamo scelto di attraversare il programma del Festival ripercorrendo tre spettacoli, particolarmente significativi nel mettere a fuoco le sfumature e i chiaroscuri che il linguaggio comico sa rivelare attraverso la sua sorprendente varietà espressiva.
Io sono verticale di Francesca Astrei: biografia di una sottrazione
«I hurt myself today, to see if I still feel», canta, in punta di piedi a un microfono appeso al soffitto, Francesca Astrei, sola sul palcoscenico del Teatro Europa di Parma. Mentre continua a cantare la canzone di Johnny Cash, il microfono si abbassa e l’attrice si ritrova stesa a terra, “orizzontale”. Buio. Quando la luce si riaccende, è seduta su una sedia al centro della scena spoglia: così prende avvio Io sono verticale, secondo capitolo da attrice e autrice – dopo Mi manca Van Gogh – che torna a sondare in profondità il dolore umano, affrontando le zone d’ombra della mente, dal suicidio alla depressione. Astrei sceglie di far emergere l’oscurità della malattia – questo viaggio nei pensieri più negativi e alienanti dell’animo umano – attraverso la metafora biblica, creando, così, un distacco, storico e temporale, tra una possibile dimensione personale e il racconto.
La voce è quella di un Lazzaro inedito, di cui finalmente sentiamo i pensieri: è morto e non vuole resuscitare. Tutti intorno – Marta, Maria, Gesù, Pietro, Cleofe, il nipotino Beniamino e persino una pecora – vorrebbero vederlo “alzarsi e camminare”, ma lui no: non ce la fa, non ha né la forza né la voglia. Con gesti precisi, capaci di delineare ogni personaggio, Astrei evoca la folla intorno a Lazzaro. Grazie a frasi spezzate che si interrompono e rispondono, accenti ed età diverse, prende forma la grande famiglia di parenti e amici, che diventa immediatamente simbolo di giudizi e aspettative. E un dubbio sorge spontaneo: ci si può permettere di sbagliare quando tutti ti guardano? «La malattia è solo per l’élite», «io sono stanco di cadere», «sbaglio anche quando vengo amato», queste sono alcune delle formulazioni che, tra una risata e un sorriso, sottolineano quanto sia difficile trovare uno spazio per esprimere il proprio dolore. E presto, il ritratto di chi, come direbbe Amelia Rosselli, è morto «alla vita» appare sul palco spoglio, e verrebbe solo voglia di urlare “lasciatelo stare”. Con Io sono verticale l’attrice, sostenuta da una tecnica impeccabile, è capace di smuovere e rendere vivo quello stesso dolore che Sylvia Plath e Amelia Rosselli (non a caso traduttrice della poetessa statunitense) non hanno mai avuto paura di nominare: una presenza concreta, lucida, spietata, ma allo stesso tempo compagna di viaggio. La depressione, oggi, colpisce una persona su sei. Eppure, continua a pesare un silenzio ostinato: non è la malattia a restare impronunciabile, ma le sue conseguenze – la perdita di senso, la fatica quotidiana, i pensieri senza speranza che, insidiosi, attaccano ogni barlume di positività. Vietato sentirsi stanchi, proibito non volersi rialzare, o il non riuscire a stare con gli altri e preferire la solitudine. Lazzaro/Astrei – proprio come la ascetica protagonista del La vegetariana di Han Kang – rivendica il diritto di svanire, di sottrarsi alla vita, anche a costo di ferire se stessi e le persone care. Senza mai nominare esplicitamente la depressione, Astrei riesce a dar voce a ciò che provano tutte le persone coinvolte: chi sta fermo e chi, invece, vorrebbe che “camminasse”. In un’epoca di iperproduttività, materiale e immateriale, il desiderio di dormire, stare, non fare, provoca un blocco, un inceppo negli ingranaggi che risulta difficile da decifrare. Ma, a volte, basterebbe solo cambiare prospettiva, aprirsi a un orizzonte diverso e ripensare tutto, magari come Sylvia Plath: un ritorno a quell’«aperto colloquio» col cielo.
Francesca Rigato
Quando una drammaturgia si trasforma in premonizione: Dov’è la Vittoria di collettivo BEstand
Ci sono casi in cui la scrittura rivela una certa capacità profetica anticipando i tempi e creando cortocircuiti inquietanti e visionari con il contemporaneo, come avvenuto per Dov’è la Vittoria, testo scritto da Agnese Ferro, Giuseppe Maria Martino, Dario Postiglione e messo in scena dal giovane collettivo napoletano BEstand. La drammaturgia – scritta nel 2018 – ricostruisce la biografia di una politica di estrema destra, la sua ascesa al potere fino ad arrivare alla candidatura alla Presidenza del Consiglio, mostrando un’inequivocabile corrispondenza con le vicende relative al percorso compiuto da Giorgia Meloni.
La sovrapposizione tra la protagonista, Vittoria Benincasa, e l’attuale Presidente del Consiglio viene marcata sia attraverso la centralità di alcuni dati biografici – il legame con Berlusconi e quello con il marito giornalista televisivo – sia grazie a una chiara imitazione della parlata della politica romana, restituita con grande abilità interpretativa da Martina Carpino. L’attrice è capace di dare voce e corpo, con significativa presenza scenica, a Vittoria: alle sue esperienze difficili e segnanti, al suo arrivismo sfrenato, al trasformismo imperante che la porta a passare dalla militanza nei centri sociali della periferia, al prendere parte ai raduni dell’estrema destra. In scena insieme a Carpino, Luigi Bignone e Antonio Elia cambiano continuamente ruolo e funzione – passano dall’essere dei giovani comunisti posticci e superficiali al restituire la pochezza di due fascistelli sconclusionati, all’essere anche “servo” e “marito” – con assoluta versatilità, catalizzando l’attenzione di chi li osserva anche attraverso l’impiego di una irresistibile comicità. Questa continua evoluzione viene sottolineata da un segno semplice ma efficacissimo: i due ragazzi attaccano sulle loro magliette diverse etichette di tessuto per segnalare il costante slittamento da un ruolo all’altro, come se in certi casi “fossero agiti” da una forza superiore – la figura del regista? – che li spinge a cambiare le loro dinamiche in scena. Il dato più interessante di questo lavoro di BEstand si colloca proprio in questa significativa qualità recitativa.
La pratica attoriale è per il collettivo anche strumento d’indagine dell’arco biografico di questa personalità controversa: i tre attori entrano ed escono continuamente dai loro personaggi, affiancando alla ricostruzione dell’ascesa politica una riflessione metateatrale sul grado di immedesimazione necessario per non scivolare, da una parte, in un patetismo giustificatorio, dall’altra in un’eccessiva brutalizzazione e semplificazione. Uno sguardo prospettico sicuramente interessante, che però finisce per sfiorare solamente la superficie delle questioni sollevate intorno alla relazione tra attore e personaggio, non riuscendo a scandagliarne del tutto la complessità.
I risvolti comici ed estremizzati delle dinamiche a cui danno vita i tre attori mostrano quanto la chiave ironica – già presente nel testo, ma felicemente sostenuta e amplificata dall’abilità dei tre attori, tra cui spicca un comicissimo Bignone servo di scena – venga ulteriormente vivificata dal cortocircuito con il presente, attuandosi in un amaro, spiazzante e vivissimo rimando all’oggi.
La rappresentazione della politica, si sa, non è certo nuova al filtro del grottesco nell’arte. Viene in mente, tra gli altri, quello che accade nel Divo di Paolo Sorrentino, dove il regista ripercorre la vita apparentemente ascetica e votata ai doveri della famiglia, dello Stato e della religione di Giulio Andreotti con un taglio epico e spettacolare. In seguito alla risposta seccata e stizzita del politico romano dopo la visione del film, Sorrentino dichiarò: «La reazione mi conforta e mi conferma la forza del cinema rispetto ad altri strumenti critici della realtà». E così il teatro, nel suo ripercorrere grottescamente l’ascesa al potere di una donna di estrema destra ne restituisce, in mezzo alle risa, un ritratto impietoso, in cui il comizio finale si rivela in tutta la sua inquietante e profetica aderenza al reale. La premonizione, in questo modo, si sovrappone pericolosamente all’oggi, invitando lo spettatore a fare pieno utilizzo dello “strumento critico”, che la trasfigurazione artistica gli mette a disposizione.
Alice Strazzi
Dai trend alle meteore, è possibile brillare per sempre? Un doppio viaggio nella danza con Francesca Santamaria e Vittorio Pagani
Una novità significativa rispetto all’edizione dello scorso anno riguarda lo spazio dato nella programmazione alla danza, sono parte del cartellone infatti GOOD VIBES ONLY (beta test) e Superstella, due performance che si susseguono senza interruzioni, legate da un filo rosso: l’influenza costante, e talvolta implacabile, dello sguardo esterno sull’io performer.
Il primo lavoro, GOOD VIBES ONLY (beta test), è firmato da Francesca Santamaria, danzatrice e autrice. La performance, fin dal titolo, si presenta come esplorazione non definitiva e in continuo divenire dei corpi in movimento nell’epoca dei social media, attraversando – come una sequenza di istantanee – le coreografie che hanno abitato (e abitano) i feed di TikTok e Instagram, tra passato recente e presente. Una voce fuori campo annuncia ogni sequenza, scandendo anno, autore e contesto di ciascun brano, introducendo le diverse sezioni con tono neutro, quasi didattico, come se la performer stesse eseguendo le coreografie su una pedana di laboratorio: tutto è misurato, calibrato, meccanicamente perfetto. La scelta cromatica dell’abbigliamento di Santamaria e della scena – maglietta e scarpe bianche, luci fredde – contribuisce a dare forma a un’impressione di controllo e distacco. Ma è proprio questo filtro oggettivante a innescare la risata dello spettatore: un’ironia che nasce dalla frizione tra la serietà dell’approccio e la leggerezza dell’oggetto trattato – i “balletti”, i tormentoni – mero intrattenimento veloce e distratto per molti, ma anche espediente di sopravvivenza per chi cerca di scalare l’algoritmo ed emergere.
Man mano che la performance avanza, il ritmo della concatenazione dei brani si intensifica. Col passare del tempo la danzatrice risulta sempre più affaticata, nonostante il sorriso stampato sul suo volto: il respiro si fa affannato, i capelli prima ordinati si scompigliano. Si percepisce la fatica di saltare da un pezzo all’altro senza tregua e senza poter avere alcuna forma di controllo. Emergono così tre livelli di logoramento: la stanchezza di chi “scrolla” il feed senza nemmeno ricordare il perché del gesto, ormai ridotto a puro automatismo; quella del content creator in eterno inseguimento dell’ultimo trend, nel tentativo di restare visibile, di non farsi dimenticare; non ultima – forse la più tragica – è la fatica tangibile della danzatrice, schiacciata a sua volta dalla necessità di assecondare lo sguardo esterno, sempre più ridanciano, del pubblico in sala. La piattaforma che all’inizio sembrava un archivio diventa un tapis roulant, in cui il corpo è spinto in avanti da un algoritmo che non prevede pause e che non lascia veramente spazio alla libertà di creazione.
Una diversa declinazione della stessa linea di ricerca viene approfondita da Vittorio Pagani che, con Superstella, segue Santamaria sul palco del Teatro Europa. La performance, ispirata all’immaginario del divismo cinematografico, fa del sostrato felliniano una materia di riflessione per esplorare il destino di chi, dopo un esordio esplosivo, si misura con la pressione schiacciante di dover replicare il grado di consenso ricevuto, se non anche superarlo. È la paralisi di una superstar, per l’appunto, che rincorre la grandiosità e l’eccezionalità del proprio inizio: quel primo lavoro che lo ha elevato a icona ora rende vertiginoso muovere un nuovo, primo passo. Per il protagonista, statuario e vulnerabile al contempo, non resta che provare, e riprovare, e riprovare ancora la combinazione giusta dell’inizio perfetto, quella in grado di compiacere pubblico e critica, attraverso un attento calcolo percentuale svolto da un’intelligenza artificiale che osserva, studia e commenta il lavoro del danzatore in scena. Per rimanere stella, e non diventare meteora, il corpo si fa marionetta: si muove con plasticità studiata, si abbevera fino quasi a strozzarsi, cerca di nascondere al pubblico le difficoltà e gli ostacoli. Quello che si consuma in scena è un ciclo reiterato, sfibrante: il corpo si sveste e riveste, attraversando continue metamorfosi. All’interno di questa continua giostra, infatti, viene restituito scenicamente il carattere beffardo – e solo apparentemente libero – delle scelte che compiamo, nell’arte come nella vita.
Superstella è una dichiarazione di anelito verso quegli «incostanti e sparuti sprazzi di bellezza» – parole che il protagonista riprende dal film La grande bellezza di Paolo Sorrentino – che appaiono e si dissolvono senza preavviso. Ed è proprio in questa tensione irrisolta che lo spettacolo trova il suo baricentro: nel continuo tentativo di superamento, in una costante oscillazione tra la prospettiva del performer e dello spettatore, del vedere e dell’essere visto, in una società sempre più orientata all’essere performante, al momento instagrammabile, già nato perfetto, già pronto a esplodere – e per questo, forse, destinato a svanire. Proprio come le stelle.
Elisa Collo
in copertina: il direttivo artistico del Festival Canile Drammatico, immagine Michele Alinovi e Carolina Buonocore
IO SONO VERTICALE
di e con Francesca Astrei
con il sostegno di Fondazione Teatro di Roma
DOV’È LA VITTORIA
di Agnese Ferro, Giuseppe Maria Martino, Dario Postiglione
regia Giuseppe Maria Martino
dramaturg Dario Postiglione
con Martina Carpino, Luigi Bignone, Antonio Elia
disegno luci Sebastiano Cautiero
scene Carmine De Mizio
costumi Federica Terracina
foto di scena Tommaso Vitiello
distribuzione Marta Chiara Amabile
produzione Teatro di Napoli – Teatro Nazionale | Casa del Contemporaneo
GOOD VIBES ONLY (beta test)
concept e performance Francesca Santamaria
collaborazione drammaturgica Pietro Angelini
sound design Ramingo
testi Francesca Santamaria, Pietro Angelini
voce Michela De Rossi
movement coaching Beatrice Pozzi
occhio esterno Daniele Ninarello
collaborazione progettuale Rossella Piazzese
costume Elena Luca
software engineering Nazario Santamaria, Lorenzo Augelli
produzione esecutiva CodedUomo
coproduzione FDE Festival Danza Estate, MILANoLTRE Festival, Festival Più che Danza
con il supporto di Porto Simpatica
sviluppata nel contesto di Incubatore per futur_ coreograf_ CIMD
SUPERSTELLA
di e con Vittorio Pagani
Produzione CodedUomo
Realizzato nell’ambito di ResiDance XL – azione del Network Anticorpi XL
c/o: L’arboreto – Teatro Dimora | La Corte Ospitale, Centro di Residenza Emilia-Romagna, Fondazione Armunia, Fondazione Teatro Comunale Città di Vicenza, Lavanderia a Vapore, nell’ambito del progetto residenze coreografiche Lavanderia a Vapore




