Nel 1986 hai aperto la primissima edizione del festival MilanOltre. Ora, dopo 36 anni, sei tornata con il tuo nuovo lavoro Stations. Come pensi sia cambiato il tuo rapporto con la danza in questi anni?

Se penso al 1986, mi sembra davvero una vita fa, è trascorso così tanto tempo! La prima volta che ho danzato a MilanOltre lavoravo con un gruppo di performer, ora invece porto un mio solo. Durante questi anni ho però conosciuto molte persone che lavorano nell’organizzazione del festival, abbiamo instaurato un rapporto speciale e quando sono qui sento di lavorare tra amici. Per quanto riguarda la mia relazione con la danza, penso di poter dire che è un legame che si è evoluto con il tempo: il mio modo di danzare non è lo stesso del 1986, ma perché io stessa sono cambiata.

Stations è nato prima della pandemia. Pensi che questi ultimi due anni abbiano avuto delle ripercussioni sullo spettacolo e sul modo in cui lo porti in scena?

Il lavoro è stato completato appena prima della pandemia, sono riuscita a presentarlo in Europa nel febbraio del 2020. Sicuramente ho apportato qualche piccola modifica in questi due anni, ma la pandemia non ha influenzato la performance in maniera diretta. Si può però dire che molte delle problematiche che sono risultate evidenti con l’arrivo dell’emergenza sanitaria — questioni di tipo ambientale e domande filosofiche riguardanti il ruolo degli esseri umani sul pianeta — hanno certamente contribuito alla nascita e alla realizzazione di Stations.

In Stations esplori quattro diversi stati del corpo: fluidità, controllo, meditazione e ossessione. È stata una scelta a priori o il risultato di uno studio su improvvisazione e movimento?

Stavo lavorando a Montréal con altre due attrici su un pezzo ispirato a Marguerite Porete, religiosa e mistica del tredicesimo secolo. L’idea originale era creare un solo coreografico di circa venti minuti da inserire in un altro spettacolo, ma approfondendo gli studi ho sentito la necessità di ampliare questo materiale. Ho quindi lavorato per altri nove mesi sulla coreografia, e durante questo processo ho riscoperto Colin Stetson, un sassofonista che apprezzo molto. La sua musica mi ha ispirato a proseguire ulteriormente con l’esplorazione del movimento. Mi sono resa conto di non volere lavorare unicamente sul materiale iniziale: sono quindi arrivata a dividere la coreografia in quattro parti distinte, e così è nato Stations.

Si può quindi dire che la musica gioca un ruolo fondamentale nel tuo lavoro? Cosa ti porta a scegliere un determinato brano da inserire nella performance?

La musica ha certamente un grande impatto sulle mie creazioni. In passato ho lavorato a progetti in cui mi è capitato di non poter scegliere personalmente l’accompagnamento musicale e questo mi faceva sentire limitata. Quando ho intrapreso il percorso che ha poi portato alla creazione di Stations, ho avuto la possibilità di lasciarmi ispirare e scegliere liberamente i brani dalle mie playlist, esplorando stili diversi. Mi piace molto quando trovo dei pezzi in grado di coinvolgermi a tal punto da farmi sentire trasportata in altri luoghi: questa sensazione è per me fonte di grande ispirazione.

Fai spesso riferimento all’importanza della connessione fra corpo e mente, riferendoti non solamente al momento della performance ma alla vita di un danzatore in generale. Cosa intendi esattamente con la parola “mente”, e perché secondo te ha un ruolo così centrale?

A volte capita di pensare ai danzatori soltanto come a dei corpi, il cui compito sta nell’esecuzione perfetta della tecnica. Io credo invece che ci siano altri elementi importanti da prendere in considerazione per un performer, come l’immaginazione, o la curiosità per questioni filosofiche e sociali. Questo non significa che i miei spettacoli siano solo concettuali, ma il sottotesto per me ha un ruolo fondamentale: la mia danza è il risultato di un viaggio continuo attraverso domande che mi pongo su me stessa, sulla vita, sul tempo e sullo spazio. Ecco perché do molto peso al ruolo della mente e se mi chiedessero se in una performance conta di più il corpo o la mente, risponderei che sono ugualmente importanti.

La danza ha un ruolo politico?

Fare danza è sicuramente un atto politico, che sia una scelta consapevole o meno. A volte mi chiedo, “è giusto continuare a danzare, dovrei fare qualcosa di più concreto?”, ma poi penso che forse scegliere di danzare è già una forma di azione. Una volta mi hanno detto che ballavo come una duende, e quando sono andata a controllare la descrizione data da Federico García Lorca ho pensato che fosse un’immagine molto profonda: il duende è in grado di trasformarsi in vento e volteggiare sulle tombe “annunciando il costante battesimo delle cose appena create”. Per me questa è la perfetta definizione del ruolo politico della danza: partire dalle ceneri e creare qualcosa di nuovo.

A cura di Beatrice Botticini, Elena Vismara


foto di copertina: André Cornellier

Questo contenuto è parte dell’osservatorio critico MILANoLTREview