Distinguere il reale dalla finzione, in una comune dimensione rappresentativa. Sembra essere questo il tema centrale di alcuni dei lavori presentati nel primo fine settimana della trentaseiesima edizione di Drodesera a Centrale Fies. Storie minori e storie maggiori, mondi ideali e situazioni del tutto reali, vicende private e condizioni condivise si intersecano e richiamano, mantenendo come punto focale di riferimento quella ricerca sui codici linguistici delle arti performative portata avanti da anni, e in modo sempre più rilevante nel panorama italiano e internazionale, a Dro.

I World breakers che danno il titolo a questa edizione del festival sono elementi, persone o fatti, che si insinuano in una situazione di stasi per alternarne gli equilibri, trasformando lo stato delle cose in modo inequivocabile. In linea con questo taglio curatoriale, Riding on a cloud del libanese Rabih Mroué porta in scena il prima e il dopo che segnano la biografia del fratello dell’artista, Yasser. Il racconto dei fatti emerge progressivamente da una narrazione per frammenti, attraverso il susseguirsi di video e registrazioni audio raccolte nel corso degli anni e selezionati in un montaggio che diventa il materiale vivo della performance.

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Yasser, solo in scena, avvia uno dopo l’altro i cd ordinatamente disposti in pila su un tavolino. Il susseguirsi di voci, immagini e testi crea una traccia stratificata di cui Mroué è protagonista, narratore e interprete, in un equilibro dichiaratamente equivoco tra l’uso dell’io e del lui, tra il ruolo dell’attore e quello del personaggio. “I ricordi sono immagini immobili che vanno fatte muovere”, dice. Così pian piano si muovono e acquisiscono significato, delineando una vicenda personale che è espressione della storia politica e civile del Libano.

Il prima e il dopo nella storia di Yasser sono divisi dalla “ferita”: un proiettile sparato da un cecchino mentre lui, ragazzino, attraversava la strada, lo stesso giorno in cui suo nonno Hussein Mroué veniva ucciso. Sopravvissuto ma rimasto paralizzato nella metà destra del corpo e afasico, Yasser ha iniziato, capiamo, una progressiva e faticosa riabilitazione, che passa da dolorosi esercizi di fisioterapia alla difficoltà di riconoscere il reale nella sua rappresentazione. Sì, perché uno dei problemi di Yasser è diventato l’incapacità di riconoscere l’immagine nel suo doppio: per questo i video sono diventati un esercizio di riattivazione, una pratica che ha segnato e documentato il quotidiano. Dal mosaico di immagini e registrazioni, legate dalle poche parole pronunciate in scena, il racconto complessivo prende progressivamente forma, con un codice linguistico che ricostruisce con efficacia non solo la tragedia personale, ma una condizione storico-politica più universale. Tema centrale per tutto il corso della performance è anche la relazione con il linguaggio: l’afasia – parola che Yasser non aveva mai sentito, ammette – ovvero l’incapacità di esprimere o comprendere un discorso, così come il rapporto tra le immagini, le parole e il loro significato sono punti cardine di una riflessione sul rapporto, tutto teatrale, tra realtà e rappresentazione.

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L’approccio documentaristico, che si interroga sul riuso e sul valore, potremmo dire “semantico”, dei documenti di una vita, è al centro anche di A beautiful Ending di Mohamed El Khatib. Anche in questo caso lo spunto della performance è una tragedia personale, ovvero la perdita della propria madre, vicenda che diventa rappresentazione universale di un dolore con cui ognuno potrà, prima o poi e a suo modo, riconoscersi. El Khatib – che indossa una maglietta con la scritta “Viva nuestra madre de Guadalupe, quasi a evocare con una certa ironia l’ingombrante figura materna, in una dimensione privata e religiosa che va al di là delle singole culture – condivide la scena con una serie di documenti e indizi raccolti e messi agli atti per costruire lo spettacolo. Registrazioni audio e video, vecchie email, lettere e sms diventano le prove attraverso le quali interpretare la malattia, il lutto e il proprio lavoro artistico. Lo spettacolo affronta il tema della morte della madre con grande forza emotiva ma, allo stesso tempo, con una delicata leggerezza. La conversazione tra mamma e figlio sul valore del proprio lavoro, i dialoghi nella sala di ospedale, la rubrica con i numeri di telefono, l’audio del funerale con l’ironico racconto degli errori dell’orchestra sono i frammenti di un racconto portato avanti con totale naturalezza, in dialogo diretto con il pubblico. A ogni spettatore verranno distribuiti il certificato di nascita di Mohamed e quello di morte di sua madre, in un progressivo processo di coinvolgimento in una dimensione intima e familiare. Sembra di assistere a una fase dell’elaborazione del lutto: non a caso lo spettacolo non si conclude sugli applausi, a scena vuota, ma su una sorta di commiato dall’artista che saluta la processione degli spettatori che escono dalla sala, come a ricevere le condoglianze. Il world breaker che segna il passaggio tra prima e dopo è, in questo caso, il lutto stesso. Portato in scena, diventa materiale performativo e nella relazione col pubblico, “rompe” altri mondi aprendo a una riflessione su come l’arte possa attivare, in un processo empatico, una relazione tra vita privata e dimensione collettiva.

Questi due spettacoli sono solo due episodi di una programmazione – o sarebbe meglio dire, in termini più estesi, di un’operosità – attenta alla commistione dei linguaggi, alla sperimentazione, all’attivazione di nuove realtà creative, a un’apertura internazionale, alla relazione con il territorio. Centrale Fies non vuole farsi vetrina ma spazio di ricerca, fucina e laboratorio in cui mostrare “prodotti” selezionati come eccellenze del contemporaneo ma anche accogliere nuove realtà artistiche selezionate con cura, che nella centrale idroelettrica portano, prima di tutto, reti di confronti e processi. Verrebbe da dire, ammiccando al titolo di questa edizione, che il festival di Dro sia allora a tutti gli effetti un world breaker: non solo perché ha portato l’arte performativa nel cuore del Trentino, richiamando artisti italiani e internazionali, ma perché continua a innescare processi creativi, di ricerca e formazione di lunga durata. Nelle diverse fasi della sua storia, dalle piazze del centro alla Centrale abbandonata e ri-attivata, ha trasformato lo stato delle cose con un’azione semplice e dirompente: “la realtà rompe i confini del microcosmo che hai recintato e tutto assume un’altra forma”.

Francesca Serrazanetti

Riding on a cloud
di Rabih Mroué
visto a Centrale Fies_23-24 luglio 2016

A beautiful Ending
di Mohamed El Khatib
visto a Centrale Fies_23-24 luglio 2016