La scena contemporanea va riscoprendo da alcuni anni un rapporto rinnovato e vitale con il dialetto, riappropriandosi così di territori tradizionalmente abitati da un teatro d’intrattenimento semi-amatoriale. Tra gli esempi più noti di questa nuova tendenza, basti citare il flegreo arcaico di Mimmo Borrelli, il veneto quotidiano di Babilonia Teatri, il violento siciliano di Emma Dante e, da ultimo, il sardo del Macbettu di Alessandro Serra (in finale ai Premi Ubu e al Premio Rete Critica 2017). E anche se Franco Cordelli continua ad allarmarsi per la possibile estinzione dell’italiano (si vedano le sue riflessioni su Le sorelle Macaluso di Emma Dante) è evidente che il fenomeno rappresenta invece un rilevante tentativo di (ri)connessione a un patrimonio culturale, territoriale – non di rado anche biografico – che restava per lo più escluso dalle scene e dalle drammaturgie.

È curioso osservare come, in questo quadro, manchino del tutto all’appello esempi lombardi degni di nota: il dialetto rimane ancorato a una dimensione “meneghina”, intesa come la rievocazione nostalgica del tempo che fu (si legga, su questo, L’identità di una metropoli di Giovanna Rosa) e a prodotti spettacolari dilettantistici. In assenza di rilevanti percorsi orientati a un rinnovato rapporto con la tradizione territoriale, lo stretto legame tra Milano e il teatro professionale si declina, fin dalla fondazione del Piccolo Teatro, piuttosto in termini di efficace progettazione culturale.

Ad affrontare indirettamente questo nodo è stato un italo-svizzero come Carmelo Rifici con la scelta, per la sua nuova produzione, di un testo fortemente ancorato alla realtà ambrosiana: Uomini e no di Elio Vittorini, pubblicato nel 1945 e scritto in clandestinità nell’anno precedente. Il romanzo – che fotografa alcune esistenze nel quadro della Resistenza milanese – presenta al suo interno una fitta rete di riferimenti topografici fino quasi a tracciare una mappa della città (riportata, non a caso, anche nel libretto di sala dello spettacolo): dal caffè Cova a Largo Augusto, dalla Scala a Porta Nuova, non è difficile orientarsi nella geografia del testo pur a settant’anni di distanza.

Proprio il rapporto con la città appare il cuore dell’allestimento di Rifici, che se da un lato ha ben chiara l’universalità delle vicende narrate da Vittorini, dall’altro sottolinea anche la dimensione urbana e ‘particolare’ del racconto. In questa duplice direzione si muove anche la bella scenografia di Paolo Di Benedetto, che pone al centro della scena un tram diviso a metà e lasciato aperto, quasi smontato: un dispositivo astratto che evidenzia la precaria mobilità delle vite dei protagonisti, e allo stesso tempo àncora l’immaginario dello spettatore a uno degli elementi caratterizzanti della città di Milano.

La ricerca di un’identità, acquisita anche attraverso il rapporto consapevole con un territorio in cambiamento, è dunque uno dei temi chiave della limpida regia di Rifici; e in questo orizzonte si muove anche l’abile riscrittura firmata da Michele Santeramo che sembra con il suo testo asciutto strappare i dialoghi al rischio della retorica e all’ideologia, per consegnarli invece ad una dimensione quotidiana e intima. Il protagonista Enne 2 e i suoi compagni sono partigiani alle prese con la morte e con la Resistenza; ma sono innanzitutto giovani che provano a trovare il proprio posto (e perché no, la loro felicità) in una città scardinata. Ecco perché non bisogna guardare Uomini e no come uno spettacolo di ricostruzione storica, come un peana alla Resistenza, o come un approfondimento delle complesse questioni politiche che accompagnarono la stesura e la ricezione del romanzo (per il quale Vittorini fu contestato, anche alla luce dei suoi alterni rapporti con il PCI). La lente di ingrandimento di Rifici e Santeramo è piuttosto umana e generazionale: cosa accade in quel momento di accelerazione improvvisa nel quale si decidono i destini della propria vita? Come ci definiamo in relazione al micro-cosmo urbano e sociale che abitiamo? I protagonisti di Uomini e no sembrano cercare la risposta nel sole pallido milanese tante volte menzionato nella drammaturgia, mentre bruciano per l’assenza di un amore o per il fervore politico; e la domanda, attraverso la presenza in scena dei quasi venti giovanissimi attori, rimbalza in platea, ai coetanei presenti in sala che dopo aver applaudito usciranno in strada, attraverseranno i binari del tram, percorrendo una Milano ben diversa ma nella quale è forse altrettanto facile perdersi.

Risulta quindi del tutto coerente e giustificata, in questo quadro, la scelta di colorare le battute di un marcato accento milanese, come a restituire le atmosfere di quella città che fu, e a recuperarne i sotterranei fili. Ma proprio su questo punto l’energica e generosa squadra di attori (tutti neo-diplomati alla Scuola del Piccolo che Rifici dirige) mostra un po’ di impaccio, quasi avesse timore di abbandonare le certezze di quella dizione studiata con cura. Curioso, dunque, osservare come sembrino maggiormente a proprio agio interpreti di personaggi volutamente “allofoni” come quelli interpretati da Caterina Filograno (pugliese) e Salvo Drago (siciliano), che si muovono con sicurezza su territori linguistici e fonetici che evidentemente sentono meno estranei alla scena.

Il dato pare, indirettamente, confermare la lontananza e la diffidenza reciproca tra il teatro professionale e la tradizione milanese: chissà che Uomini e no possa rappresentare il primo e fortunato esempio di una controtendenza.

Maddalena Giovannelli