«Il colore del cielo non mi piace, credo che dovremmo ridipingerlo» sostiene Akira Kurosawa, noto cineasta giapponese e protagonista dello spettacolo Dodeskaden, che proprio dall’omonimo film del 1970 mutua il titolo. La drammaturgia originale di Michele Segreto e Fabio Pisano, con la regia dello stesso Segreto, porta in scena il rapporto tra Kurosawa e la sua ossessione per la precisione e l’esigenza di raccontare la propria visione attraverso i dettagli.
Quando lo spettacolo inizia non cala subito il buio in teatro: il dramma prende il via con l’espediente di una parodistica serata-cineforum, realtà nella quale vengono catapultati gli spettatori con ancora le luci accese in sala. L’oggetto dell’accesa discussione a cui si assiste è Dodeskaden, la pellicola di Akira Kurosawa che dà il titolo alla performance, raccontata come la creazione più divisiva del regista giapponese: da un lato rappresentò infatti un fallimento al botteghino, dall’altro invece è considerata un importante spartiacque nella sua produzione. D’un tratto, ai tre attori in scena (Marzia Gallo, Matteo Ippolito, Matteo Vignati) intenti nella discussione da esperti cinefili s’aggiunge Riccardo Vicardi: è l’ingresso inaspettato di Kurosawa stesso, che sposta l’ambientazione all’interno delle vicende personali del regista, cambiando il tempo della storia e la prospettiva del racconto, interrompendo così il clima quasi realistico in cui era rimasto immerso lo spettatore fino a quel momento. L’arrivo del personaggio-Kurosawa ci trasporta dunque nella sua biografia, delineando un’immagine nitida del rapporto del regista con il fratello Heigo e i suoi insegnamenti, che lo accompagneranno per tutta la vita, ma anche dell’amicizia – destinata poi a incrinarsi – con l’attore Toshiro Mifune.
Tutto il lavoro verte su una riflessione attorno al tema del fallimento, affrontato a partire dal punto di vista del protagonista stesso. In un primo momento, vengono delineati alcuni tratti di personalità di Kurosawa, fondamentali a comprendere il suo approccio all’arte cinematografica: emerge il ritratto di un individuo di poche parole, quasi timido, minuziosamente preciso nella scelta di termini e toni da utilizzare in ogni circostanza della sua vita, di un regista che non si pone il problema di accontentare il pubblico. Si cita, ad esempio, la maniacalità di Kurosawa nel costruire i set, nell’attesa di giorni o mesi per una vera pioggia, adatta a girare alcune scene con l’atmosfera migliore possibile, tanto da sforare di ore e giorni i piani di produzione. Forse ridipingere il cielo sarebbe stato più semplice.
Le interazioni tra i vari personaggi in scena sono accomunate drammaturgicamente dalla scelta forte di esplicitare alcune indicazioni di regia e didascalie in forma di battuta, sempre attraverso la voce di Kurosawa: la mente cinematografica del protagonista e la dimensione teatrale nella quale è inserita la performance si fondono, andando a creare un interessante e funzionale intreccio tra sceneggiatura e drammaturgia. Dodeskaden rappresenta, quindi, un esperimento riuscito di ibridazione di linguaggi artistici, in cui teatro e cinema si fondono e collidono in un cortocircuito di mescidazione. Su tutti, un momento emblematico ed esemplificativo di questo intreccio appare quando vediamo sul palcoscenico tre giornalisti avvicinarsi al protagonista, al ritmo di domande sempre più assillanti, personali e ammiccanti al gossip, alle quali Kurasawa non vuole cedere. Nello scambio rapido e feroce di battute, il regista ripete l’iterazione assordante: «Akira Kurosawa non risponde». Il cineasta vuole estraniarsi dalle domande degli intervistatori, cerca di non rispondere, di preservare la sua integrità artistica e il suo equilibrio mentale, ormai sull’orlo del precipizio, non soccombendo alle accuse di fallimento. Il percorso drammaturgico e scenico prosegue assecondando la direzione del tracollo psicologico dell’artista, il quale, dopo un tentativo di suicidio, giunge a fare pace con i demoni del proprio passato, sotto gli occhi di un pubblico che osserva, tra l’angosciato e il voyeuristico, anche quando viene esplicitamente chiesto di non farlo.
Anche la dimensione sonora è perfettamente funzionale alla resa scenica delle cupe atmosfere della biografia di Kurasawa, principalmente articolate tra rumore di pioggia, silenzi e giochi tra microfono e voce. La bravura degli interpreti rende perfettamente comprensibile la dinamica nevrotica e incalzante del racconto; anche i momenti più veloci, come le sticomitie, sono stati resi comprensibili, godibili ed efficaci grazie a una grande armonia e a un ottimo lavoro sul ritmo.
Sarà forse vero che è fallimentare “fare la regia della propria vita”, ma con successo qui viene restituita, attraverso la regia, una vita. Questo dramma riesce nell’intento di raccontare una figura emblematica per la storia del cinema, inserendola nella cornice teatrale, distante dalla pellicola, con grande efficacia, originalità e coinvolgimento. Dodeskaden conduce allora lo spettatore in un viaggio biografico tra ossessione, successo, fallimento e rinascita.
Lisa Pagani
immagine di copertina: foto di Michele Pupo
DODESKADEN
di Michele Segreto
drammaturgia Michele Segreto, Fabio Pisano
con Marzia Gallo, Matteo Ippolito, Marco Rizzo, Riccardo Vicardi
prima creazione con Giacomo Ferraù, Sebastiano Bronzato
con il sostegno di a.ArtistiAssociati – ARTEFICI.Residenze Creative FVG, La Corte Ospitale
si ringrazia Lab121, Milano
progetto finalista Bando Under30 Venezia Biennale Teatro 2020
La recensione fa parte dell’osservatorio critico dedicato a Genera Azione Festival