Il volo di Ronzinante
Il primo tra i ronzini del mondo, el primero de todos los rocines: il destriero di Don Chisciotte – ossuto, affamato, ma instancabile – accompagna da sempre le avventure del cavaliere errante, anche nelle sue interpretazioni moderne e contemporanee. E a ben guardare Ronzinante incarna appieno il principio della rappresentazione teatrale così come viene compendiato da Shakespeare nel Sogno di una notte di mezza estate (V, I): se in platea partecipiamo con la nostra immaginazione, allora anche le cose peggiori possono trasformarsi in «noble beasts». Allo stesso modo, basta un suffisso solenne in “-ante”, ed ecco che un ronzino può diventare la cavalcatura degna di un eroe.
Una memorabile epifania di Ronzinante compare nel Don Chisciotte ad ardere, scritto e diretto da Marco Martinelli e Ermanna Montanari e destinato a lasciare il segno nella storia degli allestimenti tratti dal capolavoro di Cervantes. Si tratta, in realtà, di un vero e proprio percorso di indagine più che di uno spettacolo teatrale: i due artisti e pedagoghi ravennati hanno coinvolto in un cantiere di ricerca triennale cittadine e cittadini di tutte le età per mezzo di una chiamata pubblica. Al termine del triennio, lo scorso luglio, il processo è approdato a una forma compiuta: per tre settimane, a Ravenna, gli spettatori sono stati invitati a condividere un’intensa esperienza itinerante di oltre quattro ore attraverso le strade della città e poi al Palazzo di Teodorico, al Palazzo Malagola e infine al Teatro Rasi. Le prodezze e le disavventure del cavaliere errante sono raccontate al pubblico dai tre protagonisti delle pagine cervantiane, cioè Don Chisciotte, Sancho Panza e Dulcinea (rispettivamente Roberto Magnani, Alessandro Argnani, Laura Redaelli), insieme ai vivaci cori dei cittadini, e a due misteriose figure demiurgiche (gli stessi Martinelli e Montanari) che paiono guidare come Virgili l’intero percorso. La drammaturgia è, nel suo insieme, un vertiginoso caleidoscopio di un’unica, cruciale, questione: quale spazio resta, oggi, per la capacità di costruire mondi o almeno per sognarli? E il teatro – sempre più spesso volto a inseguire la realtà, anche nella sua dimensione più strettamente pragmatica – è ancora l’avanposto dell’inventiva e del sogno? Tra passi esplicitamente meteatrali, frammenti onirici e allusioni al contemporaneo Montanari e Martinelli (e con loro la comunità in scena) sottolineano quanto bisogno ci sia, oggi, di slanci immaginativi generosi, impavidi di fronte agli schiaffi del reale. E dunque anche quanto bisogno ci sia di artisti, attori, e di tutti coloro che del sogno fanno il centro del loro mestiere. Così, quando Chisciotte/Magnani vaticina che presto il mondo si troverà a comprendere «quanto utili sono stati e sono e saranno nei tempi a venire quei pazzi che voi deridete», non è difficile pensare al presente, e alle diverse forme con cui la politica e la società contemporanea sviliscono le condizioni dell’arte.
In questo quadro, il Ronzinante della tradizione – fratello delle molte figure “asinine” che da sempre animano la poetica delle Albe – è pronto a farsi potente metafora. Per prima lo evoca Ermanna Montanari, affacciata dal balcone del Palazzo Malagola, mentre condivide con gli spettatori erranti frammenti del suo passato esprimendosi in un vivace pastiche linguistico dal sapore testoriano: «nella mia stanza c’avevo un cavallo / Un cavalino disegnà / Nitriva d’argento / E io ci parlavo al cavalino», rivela. L’animale è dunque un interlocutore muto, inventato, una metafora del caparbio atto di fede che è credere in qualcosa di finto. Alla fine del percorso, quando dopo un lungo camminare per le strade di Ravenna gli spettatori si trovano infine seduti nella platea del Teatro Rasi, ecco comparire dal buio la sagoma dorata di un enorme cavallo alato (una imponente struttura in vetroresina) colto nell’istante subito prima di alzarsi in volo. Ronzinante, alla fine, ha attraversato l’agognata metamorfosi ed è diventato simile a Pegaso: ma si rivela solo agli occhi di chi osa credere che anche un ronzino possa volare.
Maddalena Giovannelli
Attraversamenti e spazi rovesciati
Sperimenta le più diverse esperienze dello spazio il Don Chisciotte ad ardere delle Albe. Anche questo lo rende ben più di uno spettacolo teatrale, bensì un attraversamento percettivo di luoghi, atmosfere e forme di collettività. L’attenzione allo spazio scenico si rivela già dai crediti in locandina, dove “ideazione e drammaturgia” sono tutt’uno con gli “spazi architettonici”, tutti a cura di Marco Martinelli ed Ermanna Montanari. Articolato su tre sedi – una per ogni “anta” (così si intitolano le tre parti dello spettacolo): il Palazzo Malagola, i resti del Palazzo di Teodorico e il Teatro Rasi – si estende ben oltre i loro confini, fino a coinvolgerne e ribaltarne ogni antro e la città di Ravenna stessa. Così, le Albe in scena non sono solo attori e attrici ma “vigili” che fermano e orientano il traffico, tanto degli “erranti” (gli spettatori) quanto del coro di cittadini e cittadine che hanno risposto alla chiamata pubblica, quanto, infine, degli abitanti della città, di macchine e biciclette fermate a liberare lo spazio urbano per consentire l’accadimento di questa reinvenzione del romanzo di Miguel de Cervantes.
L’intenzione di accogliere gli erranti e di renderli parte attiva della città, qualunque sia la loro provenienza, è chiara sin dal primo istante, quando Ermanna/Hermanita affacciata al balcone di Palazzo Malagola accoglie il pubblico sulla strada. Poco dopo, Marco/Marcus lo conduce all’interno del palazzo e nell’attraversamento del sogno.
È proprio il sogno, come spazio dell’immaginario condiviso, a diventare centrale nella prima anta, tanto nei sogni raccontati dai cittadini-attori quanto nella dimensione onirica e immersiva delle stanze del palazzo, che viene attraversato in piccoli gruppi: spighe di grano riempiono una stanza lasciando il vuoto di un sentiero da percorrere; poco oltre una famiglia siede in silenzio a tavola, mangiando brodo con dei coltelli, a fianco di una gabbia di galline; una stanza è piena di soldati armati di fucili, un’altra di carne da macello; e poi fino al sottotetto del palazzo, lungo un itinerario in cui donne e uomini nudi sono sagome che evocano immaginari proibiti, e molto altro. Lo sguardo delle guide che conducono i piccoli gruppi di spettatori si sofferma a indicare dettagli, dalle presenze umane ai segni e alle tracce lasciati nel palazzo. «No, no, non credete a quel che vedete. / Non vi fidate di quel che ascoltate»: il monito di Marcus al pubblico riunitosi nel cortile del Palazzo, ora trasformatosi in Locanda, sembra andare ben oltre la contingenza del racconto.
Allo stesso tempo, la presenza ed evanescenza del sogno è inscritta nei disegni tracciati dal vivo da Stefano Ricci che, come un contrappunto, in alcuni momenti del pellegrinaggio e fino alla sua conclusione nella sala teatrale, compare a disegnare e cancellare, per moltiplicare gli immaginari possibili.
Nella seconda anta lo spazio si espande all’esterno: si esce da Malagola e si entra nella città, con un corteo che attraversa Ravenna e approda al Palazzo di Teodorico, o a quello che ne resta. L’architettura urbana è sfruttata come palinsesto su cui si scrivono le storie del cavaliere, che la drammaturgia intreccia alle violenze del nostro tempo. Con l’aiuto di un’essenziale cura scenica e dell’illuminazione, gli archi del vecchio Palazzo sembrano trasformarsi davvero in quinte teatrali (utili, nella replica a cui abbiamo assistito, anche come riparo per la pioggia per spettatori e attori, in una dimensione meno scenografica ma senz’altro più intima).
Ogni anta del progetto sembra costruirsi attorno a una drammaturgia non solo dello spazio, ma anche del viaggio. Le stanze, i cortili, i giardini diventano casse di risonanza delle peregrinazioni donchisciottesche, mentre gli spostamenti del gruppo di spettatori evocano la ritualità di una processione in cui lo spettatore è un esploratore chiamato a partecipare con il proprio corpo, attivato dal movimento.
Il Teatro Rasi è la tappa finale del pellegrinaggio, ultima manifestazione della trasfigurazione dei luoghi: un tempo una chiesa, accoglie il pubblico offrendogli, all’ingresso, l’annunciata “sontuosa colazione”. Diviene così spazio conviviale e di socialità fino al passaggio nella sala teatrale, dove si svolgerà la scena delle nozze. «Questo spazio / La cripta, camera obscura, insula / Che voi ciamate TEATRUM / Non è che un’altra stanza / Un altro pertugio / Della famosa grotta di Montesinos» avverte Hermanita. Sottolineando ancora la polivalenza di un luogo, il teatro, aperto a infiniti ribaltamenti.
Francesca Serrazanetti
in copertina: foto di Silvia Lelli
DON CHISCIOTTE AD ARDERE
di Marco Martinelli e Ermanna Montanari_ Albe/Ravenna Teatro
ideazione, spazi architettonici, drammaturgia e regia Marco Martinelli e Ermanna Montanari
in scena Ermanna Montanari, Marco Martinelli, Alessandro Argnani, Roberto Magnani, Laura Redaelli, Marco Saccomandi, Fagio e le cittadine e i cittadini della Chiamata Pubblica
guide Cinzia Baccinelli, Alice Billò, Gianmarco Bizzarri, Vittoria Nicita, Marco Saccomandi, Marco Sciotto, Anna-Lou Toudjian
musiche LEDA
electronics e sound design Marco Olivieri
scenografia Ludovica Diomedi, Elisa Gelmi, Matilde Grossi
disegno dal vivo Stefano Ricci
costumi Federica Famà, Flavia Ruggeri
disegno luci Luca Pagliano
direzione tecnica Luca Pagliano, Alessandro Bonoli e Fagio
tecnici luci Luca Pagliano, Marcello Maggiori, Filippo Ianiero, Gilberto Bonzi
tecnici audio Paolo Baldini, Lorenzo Parisi
tecnici video Fagio, Filippo Ianiero
realizzazione scene e allestimento squadra tecnica Albe/Ravenna Teatro: Paolo Baldini, Alessandro Bonoli, Gilberto Bonzi, Fabio Ceroni, Fagio, Filippo Ianiero, Enrico Isola, Luca Pagliano, Lorenzo Parisi e con Antonio Barbadoro, Alice Cottifogli, Matteo Gambi
sartoria Agorà, A.N.G.E.L.O., Marta Benini
responsabili produzione Silvia Pagliano, Serena Cenerelli
organizzazione e promozione Albe/Ravenna Teatro
grafica Stefano Ricci
coproduzione Albe/Ravenna Teatro e Ravenna Festival/Teatro Alighieri
in collaborazione con i Musei nazionali di Ravenna e con Opera di Religione della Diocesi di Ravenna
Ravenna Festival, 25 giugno-13 luglio 2025