“Da Berlino vedo un paese che era il giardino culturale d’Europa e ora è seduto sulle sue memorie. Non diamo voce all’oggi, alla contemporaneità. Sembriamo un paese che ha paura della cultura.E infatti le preferiamo una subcultura guidata dall’alto. Fare teatro in Italia significa occuparsi di una cosa non necessaria, perché così raccontano: la cultura è descritta come una cosa superflua.”
In questa recente dichiarazione è amaro Antonio Latella, il regista napoletano da anni emigrato in Germania. È stata la sua versione di La notte poco prima della foresta, opera di Bernard-Marie Koltès, ad aprire la rassegna dello Stabile di Torino Prospettive 150, dedicata al centocinquantesimo anniversario dell’Unità d’Italia e che ha proposto un particolare filo rosso tra gli spettacoli: la difficoltà a riconoscersi nel proprio paese, il disagio e le fatiche di chi si sente straniero nella propria terra. Alla rassegna torinese hanno partecipato, portando testimonianza della loro condizione di esiliatiin patria, artisti da tutto il mondo. Tra loro anche i bielorussi del Belarus Free Theatre e l’iraniano Reza Servati. La loro avventura artistica e umana è raccolta (nel caso del regista iraniano in maniera indiretta, con una panoramica dello stato del teatro in Iran, tra censura e finzione) nel Taccuino di questo numero, insieme a quella di altri registi e drammaturghi che ugualmente lavorano in una condizione di resistenza. Resistenza a una crisi: sociale, civile e politica. Il perché fare teatro sia importante e vitale proprio in queste situazioni, lo spiega senza troppi giri di parole Ricardo Bartís, regista argentino tra i sette maestri invitati alla XLI Biennale di Venezia : “Il teatro è sempre un’eco del paese in cui viene concepito, è uno sguardo politico sulla realtà. Non importa se la trama testuale allude esplicitamente a questo tema o a qualunque altra cosa. Il teatro sarà sempre un’eco della vita sociale di quel paese. Uno sguardo, appunto. Il mio spettacolo El box [visto a Venezia] cerca di riflettere sull’azzardo, la confusione, la ripetizione tragica che si osserva nella vita politica del mio paese” (così il regista in un’intervista a “El Cultural”, supplemento culturale di “El Pais”, il 7 ottobre). E proprio l’Argentina è un altro dei paesi presi come esempio: attraverso la testimonianza di due teatranti italiani vicini in questo momento al paese sudamericano, e poi tramite un bel saggio di Rafael Spregelburd, uno dei registi che hanno raccolto l’eredità di Bartís.

In Italia si guarda poco al teatro come a uno strumento di rappresentazione e comprensione della realtà, quella quotidiana, quella politica, quella della crisi che sta cambiando le esistenze di tutti. Mentre arrivano a Milano i maestri russi, mentre non mancano in cartellone i consueti Shakespeare e i giovani gruppi sperimentano nuovi linguaggi, a metà tra riflessione estetica e sperimentazione multimediale, il teatro sa farsi, davvero, specchio della crisi? Gli spettatori possono trovare, in sala, una chiave di interpretazione dei loro problemi, delle loro vite, nel pubblico e nel privato?

C’è bisogno di portare la contemporaneità, un’originale mirada – sguardo, come dice Bartís – su quel mondo, il nostro, impietoso e meschino, che tuttavia non possiamo fare a meno di giudicare. Con le debite proporzioni, un tentativo italiano lo faranno quattro attrici (Margherita Antonelli, Alessandra Faiella, Rita Pelusio e Claudia Penoni) che stanno preparando una tagliente pièce satirica su donnine e omuncoli nell’Italia di Berlusconi. Esordirà a Milano a dicembre, al Teatro della Cooperativa. Titolo: Stasera non escort. Nella Prima parte, la sezione accademica, il ruolo politico del teatro continua a fare da Leitmotiv in un approfondito studio dedicato al programma decorativo del primo teatro stabile del mondo romano, quello voluto da Pompeo a Roma per farne un prestigioso strumento di propaganda e concretizzare le sue aspirazioni: da generale vittorioso a patrono della repubblica.Un programma tutto da ricostruire tra (scarsissimi) resti e l’accurata interpretazione fonti letterarie. Segue l’analisi di un poco noto quanto prezioso unicum della carriera letteraria di Franco Fortini: nel dramma in tre atti Anna – apparso solo su “La Riforma letteraria” alle soglie del 1938, e qui parzialmente ripubblicato – il problematico rapporto dell’individuo con la realtà è esplorato dal punto di vista dell’intellettuale piccolo borghese alla soglia della maturità, nell’Italia degli anni trenta: e la fortissima aspirazione a una purezza religiosa – pur tra forme acerbe e ingenuità giovanili – svela in nuce la preziosa intransigenza intellettuale del poeta-critico, che nel dopoguerra troverà ben più fertile terreno nel pensiero marxista e nell’ideologia comunista.
Infine uno aggiornamento sulle intersezioni tra teatro e cinema, a partire da Pina di Wim Wenders (in Italia a novembre): le riprese in 3D hanno permesso al regista di restituire, in tutta la sua complessità spaziale, il lavoro della Bausch e del suo Tanztheater Wuppertal, portando a termine un progetto fortemente voluto dalla stessa coreografa, scomparsa solo due anni fa.