di Emanuele Aldrovandi
regia Marco Maccieri
visto al teatro Filodrammatici di Milano _ 17-22 novembre 2015.
“Vado a teatro a vedere un giallo”. In Italia suona ancora strano. Eppure il teatro di genere è un fenomeno che inizia ad attecchire con una certa continuità anche nel panorama nostrano. Sarà che le nuove schiere di attori, registi e spettatori sono ormai avvezze a quelle tassonomie editoriali (dal giallo alla fantascienza, dall’horror al romanzo rosa) che hanno segnato il Novecento; sarà che il botteghino vuole la sua parte e i generi, si sa, sono spesso in cima alle classifiche commerciali. Ecco allora che dopo essersi saldamente radicato nel “parateatrale” – si pensi alle serate burlesque, alla fulminante stagione delle “Cene con delitto” o al più recente e orrorifico Grand Guignol – il genere trova legittimazione sui palcoscenici istituzionali grazie a qualche sortita di livello. E se tra le prime ci fu il dittico noir di Serena Sinigaglia che con Natura Morta in un fosso e Qui città di M. (riproposto qualche settimana fa al Teatro Ringhiera nella personale dedicata ad Arianna Scommegna), portò in scena le scritture di Fausto Paravidino e dello ‘specialista’ Piero Colaprico, ora tocca a Marco Maccieri tenere alta la bandiera con Homicide House.
Poggiato sulla solida competenza drammaturgica di Emanuele Aldrovandi già vincitore, nel 2013, del premio Tondelli, lo spettacolo dichiara il suo rapporto col genere fin dalla locandina dove, su sfondo anticato, i quattro protagonisti posano con “sguardo in macchina” in bilico tra iconografia western e pulp. La trama non è da meno: un giovane imprenditore con moglie a carico, indebitatosi con un mefistofelico strozzino, si trova a pagare il proprio debito consegnandosi anima e corpo nelle mani di una ricca e sadica signorina, disposta a sborsare una bella cifra pur di uccidere e torturare il malcapitato di turno. A completare il quadro una scenografia minimale composta da un tavolo, una sedia e, soprattutto, da un fondale luminoso, chiamato ad accentuare l’effetto “graphic” (novel) un po’ Tim Burton (nelle cromie sature/acide dello sfondo quanto nei dettagli dei costumi) un po’ Bob Wilson (negli improvvisi controluce che appiattiscono i volumi esasperando l’effetto “silhouette”).
La commistione funziona e lo spettacolo sembra ben avviato sui binari del ludico. Le battute si innescano rapide tanto che i serrati botta e risposta, il precipitare della vicenda e i secchi cambi di scena (si sente un “clack” e si passa alla “vignetta” successiva) sembrano pretendere dallo spettatore un’epoché forzosa, un abbandonarsi al ritmo e ai propri impulsi primari. Parole, risa, stupore, ancora parole, tensione, suspense. Non c’è tempo per fermarsi e riflettere. Istanze narrative prima che personaggi, gli interpreti di questa black comedy stanno al gioco smarcando la recitazione da ogni velleità realistico-psicologica e concentrandosi su una rappresentazione verbale o, al massimo, iconografica. Tutto in regola: se di genere si tratta, non è una novità che spesso l’estetica e l’azione abbiano precedenza sugli aspetti riflessivo-introspettivi.
Eppure il cerchio non si chiude. Cosa sono tutte quelle chiacchiere sul mentire, sulle conseguenze che comporta la parola? Non sarà che Aldrovandi, memore di certi esempi tarantiniani (sì, quello di Hollywood che ci ha istruito sulla retorica del pulp), voglia dar vita a un giallo filosofico, a una black comedy esistenziale, a un action verbale? Homicide house è infatti soprattutto questo: un combattere metafisico sul tema della parresia, ovvero su quella libertà di parola (la libertà di dire ciò che si vuole nella duplice accezione verità/menzogna) che trascina i personaggi verso un’inevitabile “etica della parola” e delle azioni ad essa legate. Un esperimento senza dubbio interessante che, se a livello di scrittura trova una certa grazia, rischia, in scena, di rimanere intrappolato nella sua forma ibrida, a metà tra il divertissement di genere e un’ingombrante autorialità.
Corrado Rovida