Nel tuo archivio personale, quali sono le fonti di ispirazione principali?

Fin da piccola andavo ai grandi concerti con mio padre. Mi sono accorta che sono diventati una parte fondamentale delle mie referenze artistiche. The Wall dei Pink Floyd fa sicuramente parte del mio archivio personale. Ho creato molti lavori che interrogano il senso dell’umanità e dell’essere umano inscritto in un sistema. Questo è il mio immaginario d’archivio. E poi 2001: Odissea nello Spazio, in particolare la sequenza in cui i computer “muoiono”: da bambina mi fece piangere. Sono sempre stata curiosa della relazione tra umano e non-umano. Quelle immagini sono rimaste in me come una conversazione costante su cosa significhi relazionarsi a ciò che è fuori da noi. Viviamo in una società profondamente antropocentrica: come possiamo pensare l’umanità non come priorità del mondo, ma come una specie tra le altre?

Se volessimo essere più specifici, in riferimento al tuo lavoro tecnico e coreografico?
Ho sempre scherzato dicendo di avere due “coreografi-papà”: Dimitris Papaioannou e Romeo Castellucci. Entrambi registi teatrali. Le mie ispirazioni, infatti, non arrivano quasi mai dalla coreografia in sé. Per Replica, ad esempio, siamo andati nei musei in Svezia per osservare come il corpo viene rappresentato nella scultura; poi in Norvegia; poi a Napoli, per un mese intero, a studiare chiese, affreschi, dipinti, sculture. Le referenze per i miei lavori arrivano spesso dalla storia dell’arte. A volte dalla tecnologia o dal modo in cui essa modella la società contemporanea: ciò che leggo sui giornali, quello che vedo nei reels… ma quasi mai dai coreografi.

La danza segue tendenze cicliche? Possiamo paragonarla alla moda?

Domanda interessante. Ci sono coreografi – me compresa – molto intrecciati con la cultura pop contemporanea, con Instagram, con le subculture. Mi interessa osservare come le persone esprimono sé stesse attraverso i vestiti: lì c’è molto della condizione umana. Non è tanto la “moda” che mi interessa, quanto la sua subcultura. Per me, come persona queer, questa è estremamente comunicativa: espande le possibilità del genere, permette di esprimersi oltre maschile, femminile, non-binario. È un modo molto lucido di osservare l’espressione umana oggi.

E nella danza? Anche lì esistono cicli come nella moda?
Sì, assolutamente. Ci sono tendenze che emergono chiaramente.
Oggi, ad esempio, molte persone lavorano con la ripetizione. È ovunque. È un trend che racconta qualcosa del presente. Credo anche che ogni ciclo sia influenzato dal paese in cui vivi, da dove sei situato nel mondo. Una tendenza forte del momento è l’interesse per il corpo atletico. Abbiamo attraversato epoche dedicate alla tecnica, poi al minimalismo; ora siamo nell’epoca dell’atleticità. Che cos’è un corpo atletico? Quanto lontano possiamo spingerlo? Viviamo in un mondo che spesso ragiona per estremi – culturalmente, socialmente, economicamente – e l’atleticità sta diventando un corpo politico. La danza sta occupando sempre più spazio politico; si sta trasformando anche la nozione stessa di corpo.

Quanto il lavoro coreografico può essere paragonato a un’opera di sartoria?

Personalmente penso alla coreografia come a un processo di scultura. Estraggo qualcosa dalla persona con cui lavoro: personalità, umanità, punti di vista. Come posso creare a partire da quel materiale? Anche la sartoria, secondo me, è un processo di scultura. La coreografia è come scolpire dall’interno verso l’esterno: un inside-out. La moda è scolpire dall’esterno verso l’interno: un outside–in. Sono simili: uno è un lavoro “in uscita”, l’altro “in entrata”. Un’altra connessione riguarda la sfumatura. Quando un buon sarto lavora, le linee sfumano. Credo che in coreografia cerchiamo lo stesso: sfocare, lasciar emergere qualcosa di nuovo mentre qualcos’altro si dissolve.

La tecnologia è oggetto di indagine o strumento espressivo? Che valore aggiunge alla danza?

Sono anche una designer: nella mia formazione ho sempre usato diverse tecnologie – artificial rendering, free modeling, VR, mocap… Mi sento molto a mio agio con il digitale. Tutti i miei pezzi, in un modo o nell’altro, portano una sensibilità tecnologica. Viviamo in un mondo in cui l’uso della tecnologia è estremo. Non mi interessa dire se sia positivo o negativo: semplicemente esiste. E quindi mi chiedo sempre quale sia la nostra relazione con l’artificiale. Come collaboriamo con la tecnologia? A volte ci supporta, altre no. Nel mio pezzo 6.58 Manifesto, il primo tableau è dettato da un codice che ho scritto e che dà comandi ai danzatori. Ogni spettacolo è diverso: premo play e il computer genera i comandi. Volevo capire cosa accade alla coreografia quando viene letteralmente messa nelle mani di una macchina. In Replica, invece, osserviamo come la tecnologia modifica la nozione del corpo. TikTok, Instagram: tecnologie sottili, ma che coreografano le persone. Milioni di utenti fanno le stesse pose, gli stessi balli, ovunque nel mondo. Questo ci interessa: come la tecnologia influenzi la percezione del corpo e come questa venga replicata nei gesti quotidiani.

Come artista, porto con me la domanda: come coesiste la tecnologia con l’umano? Influenza? Supporta? Trasforma?

L’anno scorso ho realizzato in un museo americano un’installazione in cui un performer interagiva con un braccio meccanico. Anche lì, nessun giudizio: non si tratta di valori. La tecnologia esiste. La domanda è: qual è la nostra relazione con essa? Sappiamo davvero che effetto ha sul nostro corpo? Per me è qualcosa che non posso ignorare: è qui, è presente, e la mia indagine nasce da uno sguardo critico e da un desiderio di relazione.

A cura di Sara Ubbiali


Questo contenuto è esito dell’osservatorio critico dedicato a MILANoLTREview 2025