Un’installazione audio, un film, un’esperienza acustica: con Todes, Francesca Marconi restituisce attraverso una pluralità di linguaggi un’esplorazione “anatomica” del quartiere di Via Padova, grazie alla quale le strade e le piazze diventano organi e muscoli, carne e sangue di un corpo vitale e mutevole. In occasione della presentazione del progetto – curato da Gabi Scardi, in dialogo con Maria Paola Zedda, in collaborazione con i negozianti e i cittadini di via Padova, gli studenti del Liceo Artistico Caravaggio e la partecipazione di Francesco Venturi per le musiche – all’interno del festival Le Alleanze dei Corpi, abbiamo raggiunto Marconi per una conversazione sui temi e i processi alla base della creazione.
La tua formazione si è svolta tra la Scuola d’arte drammatica Paolo Grassi e l’Accademia di Brera, coinvolgendo diversi ambiti artistici: il teatro, il cinema, la danza, la scultura, la fotografia… C’è un aspetto che – più di altri – funge da punto di partenza al momento della progettazione dei tuoi lavori?
Non ho tanti punti fermi, ma forse un filo molto sottile che mi guida è di tipo drammaturgico: penso a grandi linee al tema che voglio affrontare, partendo di norma da una domanda che rimane molto aperta. Gli ingredienti che compongono i miei lavori dipendono dai contesti e dalle comunità con cui interagisco. Poi, come nella scultura, provo a estrarre una forma dalla materia a disposizione, ma il mio ruolo è simile a una direttrice d’orchestra, che conduce il processo al quale le persone scelgono di partecipare, portando i propri strumenti.
Todes, il lavoro che presenterai al festival Le alleanze dei corpi, è un dialogo con gli abitanti del quartiere di Via Padova. Di quali strumenti e linguaggi ti sei servita?
Con Todes volevo continuare il lavoro di Internazionale Corazon, progetto del 2018, approfondendo la ricerca drammaturgica sui temi del corpo e del territorio e sulla loro perpetua mobilità in trasformazione. Mi piace immaginare il quartiere come un corpo e il corpo come un paesaggio, interconnessi e sempre in evoluzione. In Todes, però, utilizzo per la prima volta in modo preponderante l’audio, lavorando in sottrazione rispetto agli elementi visuali, che erano centrali in Internazionale Corazon. La fruizione cambia: il sonoro richiede sicuramente uno sforzo maggiore, perché bisogna predisporsi con consapevolezza all’ascolto. In questo senso, la scelta di concentrarmi sull’audio si connette al tema della cura e prova a rilevarne la grande importanza politica: ascoltare sé stessi e gli altri è il presupposto per ogni incontro o scambio, per conoscersi e per capirsi.
Quale è stata la risposta degli abitanti di fronte al tuo invito a dialogare insieme? Come si sono instaurate le relazioni? Hai usato un determinato criterio per la scelta delle persone da intervistare, oppure ti sei affidata alla casualità degli incontri?
Gli incontri sono avvenuti in maniera naturale, frequentando gli spazi e gli ambienti di Via Padova, dai locali alla strada. Non si è trattato di vere interviste, piuttosto di chiacchierate amichevoli e in confidenza. Non c’è nulla di diverso da ciò che accade nella vita: le relazioni si auto-selezionano in base al caso e alle convergenze di interessi. Posso dire, però, che in generale c’era molta voglia di incontrarsi dopo il lungo periodo di isolamento dovuto alla pandemia. La mia scrematura è avvenuta solo in un secondo momento, quando – riascoltando ore e ore di registrazioni – ho dovuto procedere a un’operazione di taglio e ricucitura. È stato molto interessante notare come persone che non si conoscevano affatto rispondessero allo stesso modo alle mie domande. Per esempio, quando ho chiesto di attribuire un colore a Via Padova mi è stato risposto – da persone diversissime tra loro per età, origini e identità sessuale – “color arcobaleno”! Todes vorrebbe restituire anche tutti quei legami a volte invisibili ma in fondo sempre presenti e di cui ogni corpo vive.
Via Padova è molto cambiata nell’ultimo periodo: salita agli onori della cronaca per le rivolte dei migranti e raccontata come una zona di violenza, ora è nota per il suo fermento sociale e culturale. Si può dire che incarni l’idea di riqualificazione di cui molto si parla riguardo alle periferie delle città?
Via Padova è sempre stata una via proletaria e molto discussa, fin dagli anni Cinquanta e Sessanta, quando era abitata in prevalenza da immigrati del Sud Italia. Le criticità non sono mai mancate, ma la questione su cui interrogarsi riguarda la capacità amministrativa di affrontare alcune questioni sociali. Certamente negli ultimi anni abbiamo assistito a un grande cambiamento: si sta lavorando sugli spazi pubblici, con una ricaduta positiva anche sulla vivacità del quartiere, ben lontana dalla desolazione a cui ero abituata quando rientravo a casa di sera, anni fa!
Però non sono d’accordo con la parola “riqualificazione”, perché penso che tutto abbia già valore di per sé: quando si parla di riqualificare le periferie, si dimentica che sono anche le zone più interessanti, perché – come in ogni luogo di confine – è là che avviene tutto, nel bene e nel male. Accanto a conflitti e problematiche, io vedo soprattutto il potenziale legato alla molteplicità di codici e linguaggi, tanto che spesso il centro della città finisce per assorbire proprio quello che è stato sperimentato dalle periferie.
Credi che l’avvicinamento tra centro e periferie porti con sé il rischio di perdere – o sfumare – l’identità del luogo?
È indubbio che il nuovo volto di Via Padova vada di pari passo con un processo di gentrificazione: il mercato immobiliare, trainato dall’effetto Nolo, sta cambiando la configurazione del quartiere. Per esempio, nel condominio in cui vivo molte famiglie originarie del Bangladesh o dell’America latina sono state sostituite da giovani fotografi, artisti, da una così detta componente hipster. Avverto un pericolo di appiattimento, ma rimango critica riguardo al concetto di identità: infatti nei miei lavori cerco di “aprire” l’identità, immaginandola meticcia e in grado di riconoscere le sfaccettature individuali di ciascuno. La vera sfida per un quartiere come via Padova è sostenere le diverse anime e farle coesistere, senza che qualcuna venga cancellata. Per me la chiave è lavorare insieme, confrontarsi con gli altri: questo permette anche di abbattere il pregiudizio che inconsciamente fa parte di me, come di tutti noi, e che deriva dalla nostra cultura bianca occidentale, dai nostri parametri di riferimento in termini di valutazione che abbiamo verso gli altri, verso i codici e i linguaggi estetici e artistici. Se si instaura un confronto reale e sincero, credo sia possibile creare forme di alleanze e pratiche di vicinanza che possano essere attivatori di relazioni.
Nadia Brigandì, Milena Borgonovo e Silvia Galletti
Questo contenuto fa parte dell’osservatorio critico Raccontare le Alleanze