C’è una soglia da attraversare, ed è fatta di voce che gioca, riecheggia, si moltiplica e si rincorre. È la sala al secondo piano della Cascina Cuccagna ad accogliere il pubblico di QDP – Quando diventerò piccolo, spettacolo di e con Sergio Beercock, attore, musicista e performer anglo-siciliano, a partire da rime originali di Bruno Tognolini.
Beercock invita a trasformarci, a tornare piccoli. Non si tratta di regredire: è un viaggio di ritorno consapevole, un movimento circolare verso l’infanzia intesa non come passato ma come forma originaria da cui possiamo ancora imparare. Lo spazio è essenziale – una loop station, una camicia, un microfono – ma basta a evocare un’infanzia che non è solo ricordo, è materia viva. Quando Beercock si rannicchia in una camicia simulando l’atto della nascita come lo schiudersi di un uovo oppure quando grida, impaurito, guardando smarrito le sue mani e le sue braccia che, nella finzione drammatica, si stanno allungando a seguito dell’inevitabile processo di crescita, diventa chiaro che «restare fedeli a ciò che siamo stati» non è una mera frase motivazionale, ma uno sforzo fisico, una resistenza al rischio di diventare adulti disinnescati, per non dimenticare le domande radicali che facevamo da bambini.
Fin dall’inizio Beercock coinvolge gli adulti e i piccoli spettatori in un viaggio da affrontare collettivamente. Ci caliamo quindi con lui in un’atmosfera onirica amplificata dalle stratificazioni sonore che è capace di costruire in scena grazie alla loop station e dall’immaginazione del pubblico stesso, a cui viene chiesto di pensare al tempo come a un oggetto concreto. Le risposte arrivano spontanee: «una clessidra», «un orologio», «un libro», e il performer le accoglie come materiali narrativi, giocandoci, ripetendole, intrecciandole. È il primo gesto tangibile di una drammaturgia che si costruisce in relazione, in ascolto, trasformando l’astratto in esperienza condivisa. È l’immagine proposta dal performer, però, a lasciare il pubblico sospeso: il tempo è un condominio pieno di stanze in cui si annidano esperienze e dolori, alcune sono dimenticate, altre chiuse a chiave, ma tutte sono accessibili, se sappiamo come tornarci. Come l’acqua nella Filastrocca dei mutamenti di Tognolini, anche l’identità primigenia del protagonista non si dissolve, ma si trasforma. Beercock lo mostra con il corpo prima ancora che con le parole: si rannicchia, si contorce, cresce, si infila le mani in bocca, emette versi da neonato. È una lotta visibile tra il desiderio di restare e la spinta a diventare altro da sé. In quel gesto fisico, buffo, tenero, a tratti disturbante, c’è tutta la tensione del cambiare forma senza spezzarsi. È lì che ci si salva per Beercock: riconoscendo che dentro la crescita adulta può ancora esserci traccia di quello che siamo stati, a patto di essere in grado di ascoltarlo e accoglierlo. L’attore alterna abilmente la prospettiva del bambino a quella del narratore, descrivendo le dinamiche dell’infanzia, le prime amicizie, la derisione, spesso sottovalutata, che plasma l’identità. E ancora il gioco, la sorpresa e la voglia di esplorare il mondo. È una danza di ritorni, una spirale, come il bambino che diventa adulto e poi, forse, torna ancora bambino.
«Cosa ti dicevano quando ti prendevano in giro?» chiede all’improvviso. Qualcuno risponde «che piangevo troppo», un altro «che ero troppo basso». Beercock trasforma queste parole in gioco, in suono, in rima. È così che il tempo si incrina: non in senso poetico, ma nel gesto reale di condividere, riscrivere, ridere insieme di una ferita. Veniamo così coinvolti in una metaforica battaglia verbale ortofrutticola: si scelgono ortaggi da utilizzare come armi buffe, si improvvisano rime come scudi e il gioco è liberatorio, poiché il dolore non viene rimosso, ma riformulato in forma ludica e condivisa.
«È difficile essere bambini» si dice sul palco, ma il nostro passato riecheggia tra le stanze di quel condominio-tempo, allo stesso modo in cui si propaga la voce di una piccola spettatrice che timidamente si avvicina al microfono per recitare la filastrocca che l’attore le porge con dolcezza.
Alla fine del viaggio, scopriamo che qualcosa è rimasto intatto: una parte profonda di noi, quella che resiste al tempo e ai mutamenti. Un po’ come l’acqua, cambiamo forma senza perdere ciò che siamo, accettando che possiamo trasformarci conservando un po’ di quel che siamo stati da bambini.
Isabella G. d’Amicis
immagine di copertina: foto di Alessandro Villa
QDP – QUANDO DIVENTERÒ PICCOLO
di e con di e con Sergio Beercock
rime originali Bruno Tognolini
La recensione fa parte dell’osservatorio critico dedicato a FringeMI Festival 2025