drammaturgia e regia di Giulia Lombezzi | con Alice Bignone, Ermanno Rovella, Camilla Violante Sheller


«Son proprio contenta che hai la camera davanti all’albero. Pensa che brutto se capitavi davanti al muro!»
Il tono con cui la figlia si rivolge a sua madre Annabella è lo stesso che si userebbe con un bambino. A volte si tinge di tenera indulgenza, altre è costellato di ordini e moniti imperiosi, resi ancora più duri dall’uso di un megafono. Maternità e filialità, nel corto teatrale scritto da Giulia Lombezzi, sono nient’altro che membri della medesima equazione: legami emotivi e biologici indissolubili che si possono invertire tra loro, fino all’esasperazione. Essere figlia vuol dire forse diventare fatalmente madre, un giorno. E viceversa. Annabella, tra dimenticanze dovute all’età e momenti di tragicomica lucidità, accetta i rimproveri della figlia, anche se la fanno tornare bambina, con la necessità di “attaccarsi ai mobili” per non vacillare e cadere. Mentre rievoca episodi buffi e malinconici del proprio passato, la raggiungono, da fuori, le raccomandazioni di sua figlia, che appartiene a una realtà ormai diversa da quella che Annabella sta vivendo dentro l’ospizio. Il tailleur bianco, asettico e infermieristico, che la figlia indossa e il tono irreprensibile della sua voce nascondono una preoccupazione materna, severa ma amorevole. La rete degli ammonimenti si stringe attorno ad Annabella rendendola quasi inerte, avviluppandola in una trappola che assume le sembianze di un lenzuolo pronto a fasciare una salma. Liberarsi da questo sudario significa abbandonare i propri smarrimenti e riacquistare consapevolezza, anche se solo per un attimo. È allora in questo momento, quando la figlia elenca tutti i passi inevitabili che hanno condotto sua madre lì dentro, quando ribadisce il suo sentirsi e voler essere semplicemente figlia, che il gioco delle parti tra loro finalmente si inverte e Annabella torna ad essere mamma, attirandola nel proprio abbraccio e consolandola con le parole che una volta sono state sue: «Son stata proprio fortunata a capitare qui. Pensa se capitavo dall’altra parte. Pensa se capitavo dove c’era il muro».

Sara Monfrini


Nella distanza spaziale di tre punti si svolge la dolorosa vicenda di Annabella, una dei protagonisti dello spettacolo L’albero, interpretata da Camilla Violante Scheller. Ai poli di questa linea ci sono la figlia, impersonata da Alice Bignone e l’infermiere, a cui presta voce e corpo Ermanno Rovella.
E se di dolore si parla, questo trova espressione, oltre che nel lento decadimento fisico e psicologico di Annabella, soprattutto nell’incomunicabilità che pervade l’intero racconto. Annabella dimentica nomi e storie: fatica a ricostruire il mosaico di mansioni quotidiane dettate dalla figlia che, chiusa nel proprio dolore, impartisce ordini e compiti. Martino dal canto suo prova a parlare all’anziana, prima facendo conversazione infine raccontando, come a un’amica, il proprio amore per la collega Jessica. La perentorietà della figlia e la dolcezza ingenua di Martino si scontrano con il silenzio della donna, con la sua assenza. La vita nella clinica e il progressivo isolamento di Annabella sono rappresentati dal lungo strascico della vestaglia che passa dalle mani della figlia a quelle dell’infermiere, avviluppandosi sempre più stretto attorno al corpo della donna. Annabella è libera solo quando si riappropria dei propri ricordi, a cui nessuno replica, né sorride. Ciò che racconta appartiene infatti a un mondo altro e risponde a logiche differenti da quelle che seguono i due comprimari: nel rapporto con altri è quindi muta, esclusa. È al pubblico, invece, che l’anziana si rivolge come fosse un amico, un ultimo confidente. Numerose scelte registiche indagano questo stato di irreversibile incomunicabilità e i riflessi che genera nella vita dei protagonisti: la disposizione degli attori su un’immaginaria linea orizzontale, il loro darsi le spalle, la sovrapposizione nel parlato fanno da contraltare scenico alle divisioni, alle incomprensioni che animano la vicenda. Il limbo in cui vive Annabella, la sua percezione alterata, la dimensione ospedaliera si riflettono nei costumi, tutti bianchi. Fanno eccezione le scarpe della figlia, ultimo segno di un’appartenenza al mondo fuori, di un attaccamento alla realtà mondana che non può svanire insieme alla progressiva dissolvenza della madre. E quello che, nella prima parte dello spettacolo, la scena racconta senza bisogno di parole emerge con tutta la sua forza nello sfogo finale la figlia che, quasi volesse giustificarsi davanti a un pubblico-giudice, rivela il motivo dell’atteggiamento da lei adottato. Questo momento fortemente patetico scioglie il nodo, abbatte il muro in cui erano imprigionate le emozioni dei personaggi. Finalmente madre e figlia si riconoscono, si guardano, si abbracciano. E così l’albero del giardino dell’ospizio, doppio di Annabella in termini di fissità e mancanza di movimento, nel finale si discosta da lei, presentandosi ancora verde e rigoglioso: «Lo sai che sei proprio bello oggi?» gli dice amichevolmente l’anziana.

Jasna Camilla Grossi

Questi articoli sono pubblicati nell’ambito di HORS in progress 2019