Come l’accadimento teatrale, puntuale e circoscritto nel tempo, replicabile ma mai uguale a sé stesso, può sottrarsi alla dimenticanza? Come custodire la memoria delle storie, delle maestranze e dei lavoratori del teatro? Ne abbiamo parlato con Ilaria Costanzo, autrice del progetto fotografico Lavoratori la cui inaugurazione si è svolta il 22 ottobre presso Il Lavoratorio. Immortalando in ritratti in bianco e nero i volti degli artisti che hanno abitato la sala fiorentina durante la scorsa stagione 2021-2022, il progetto di Ilaria Costanzo è un tentativo di trattenere immagini e memorie del racconto teatrale attraverso il suo personale sguardo fotografico, contribuendo a costituire un archivio storico delle arti sceniche in divenire, «una mostra in crescendo» capace di perdurare nel tempo.
Come hai conosciuto il Lavoratorio e come è nato questo tuo progetto fotografico?
Il progetto è nato nel 2017, l’anno dopo che Andrea (Macaluso, ndr) aveva aperto il Lavoratorio. Anche il mio compagno lavora nell’ambito teatrale, avevamo bisogno di uno spazio per fare delle prove e gli proposi di andare a conoscere questo nuovo luogo vicino casa. In quell’occasione, parlando, venne fuori che Andrea aveva visto le mie foto di alcuni spettacoli e mi chiese se mi andasse di esporre qualcosa di mio. Io non ho mai miei progetti pronti; normalmente lavoro su commissione, perché sono fotografa di scena, a teatro e al cinema, e partecipo a festival o eventi… Quindi mi venne in mente di fare qualcosa con gli attori che passavano dal Lavoratorio, facendo a ognuno di loro un ritratto. Ad Andrea piacque moltissimo quest’idea e l’anno successivo iniziammo, cercando di ripartire dagli artisti dell’anno prima. Strutturato così, per me, questo lavoro ha un senso: è stato studiato per il Lavoratorio ed è diventato la sua memoria storica. Nei nostri sogni, quando il Lavoratorio compirà dieci o vent’anni, magari faremo anche una pubblicazione di questo progetto. L’idea è proprio quella di aumentare ogni anno il numero di fotografie, lasciando via via anche quelle degli anni passati: una mostra in crescendo. Sulla parete accanto alla sala troviamo le fotografie degli anni passati, mentre all’entrata ci sono quelle dell’ultimo anno.
Senti una corrispondenza tra il tuo modo di vivere l’arte e il luogo del Lavoratorio?
Tantissimo. Parlando con Andrea ho subito avuto una bellissima impressione e conoscendolo nel tempo sempre di più sento di essere molto vicina a quello che è anche il suo mondo. È una persona che cura moltissimo la qualità delle scelte che fa e il Lavoratorio, anche se è uno spazio molto piccolo, ha avuto grande rilevanza per la città: ha fatto un ottimo lavoro e, per fortuna, gli ottimi lavori ogni tanto vengono premiati.
Osservando i lavori esposti, si ha la sensazione che il tuo sia uno sguardo intrusivo, che scruta quasi clandestinamente dettagli sfuggenti, raccontando spazi e momenti al di là della scena. Come nascono le tue fotografie? Come descriveresti il tuo sguardo fotografico e l’intenzione che sta al centro del tuo lavoro? Quale ruolo svolge la tecnica del bianco e nero nei ritratti presenti in mostra e nella tua pratica fotografica?
Non sono brava a fare le foto di posa, perché non riesco a creare uno schema mentale da realizzare. Sono più brava ad adattarmi alle situazioni, mi definirei più “da strada”, “da reportage”.
La mia pratica fotografica si adatta a seconda delle persone che incontro, valutando la predisposizione della persona allo scatto e soprattutto al ritratto, che permette una relazione intima e ravvicinata con chi stai ritraendo. Scattando, mi piace molto rimanere aperta a quello che succede di fronte a me, lasciarmi sorprendere dalle circostanze, cambiando la mia prospettiva a seconda della stagione, dell’orario, della luce e cogliendo le opportunità che le condizioni di scatto e di luce offrono all’improvviso. Come è accaduto al ritratto presente in mostra, di Marta Cuscunà: è arrivato inaspettatamente, cogliendo un riflesso di luce e di ombre imprevisto.
Ogni situazione di scatto è diversa, per questo cerco di avere non tanto uno schema prestabilito, ma uno sguardo empatico verso le persone che incontro, calibrando di volta in volta come muovermi e come scattare. E in tutto questo la tecnica del bianco e nero, oltre a essere una scelta stilistica, è uno stratagemma per adattarsi alle circostanze imprevedibili dello scatto e mi permette di costruire un racconto fotografico armonioso, rendendolo così duraturo e leggibile anche col passare del tempo.
Qual è secondo te il ruolo della fotografia nella testimonianza dell’evento teatrale? Come ti posizioni con la tua pratica fotografica tra la necessità di raccontare il teatro e rendere visibili i suoi meccanismi tecnici e le sue componenti – gli attori, lo scenografo, il costumista, light designer – e il tentativo di documentare l’accadimento che ogni volta si ripete?
La mia fotografia è documentazione di quello che succede in scena, e il punto di vista da cui osservo è estremamente soggettivo. A me piace rispettare le maestranze del teatro mentre fotografo: non riesco a cambiare le cose che sono in scena, voglio che rimanga quello che c’è. Cerco di adattarmi, di spostare il mio sguardo per rendere armonioso quanto sto documentando, e questo vale anche nella gestione dei colori e nella post produzione fotografica.
Credo che la fotografia sia uno strumento di memoria per il teatro, perché l’evento del teatro è replicabile ma mai uguale a sé stesso. È un accadimento soprattutto nella vita di un attore, di un regista e di tutte le professioni a esso legate. Tutti i teatri dovrebbero avere fotografi di scena e ogni spettacolo dovrebbe essere documentato, perché ogni spettacolo è irripetibile e ha una profonda importanza storica, di memoria.
Ci racconti la tua storia con la fotografia? Quando e in che modo ti sei avvicinata a questo linguaggio? Come è cambiata la tua pratica fotografica nel corso degli anni?
Ho sempre creduto di essermi avvicinata tardi alla fotografia, ma in realtà, ripensandoci, ho avuto una macchina fotografica fin da quando ero adolescente. Quando uscivo con gli amici mi piaceva fare foto, che poi stampavo e “catalogavo”, scrivendo dove ero, in quale giorno e cosa fosse successo. Quindi in realtà questa cosa c’è sempre stata. Il momento in cui c’è stata una svolta, però, è stato all’università. Ho fatto Scienze della comunicazione a Siena e poi la specialistica a Prato. Qui ho cominciato a fotografare, per divertimento, la compagnia teatrale dell’università. E come loro sono cresciuti e sono rimasti in quest’ambito, diventando attori o organizzatori, così anch’io sono cresciuta e sono migliorata. Non ho fatto scuole di fotografia, solo più tardi ho seguito dei corsi, perché sentivo che effettivamente mi mancava qualcosa e che non potevo continuare solo da autodidatta. Però per me sono stati molto importanti la voglia di conoscere, la curiosità che avevo e il mio star bene quando fotografavo. Ho passato anni a chiedere gli accrediti per andare a fotografare gli spettacoli e poi a cercare di rivendere le foto alle compagnie. E sono migliorata tantissimo facendolo tutti i giorni; ho imparato tanto guardando cosa facevano gli altri. Alla fine è diventato un lavoro, ma all’inizio non ci credevo neppure io: era più una sorta di diversivo, come spesso accade. Poi a un certo punto, se vuoi lavorare con determinate istituzioni, devi crederci e farti riconoscere, anche a livello contributivo e amministrativo.
Ivana Damiano, Emma Vanni
foto di copertina: Ilaria Costanzo
Questo contenuto è parte dell’osservatorio critico Officina Critica