di Zaches Teatro
Visto al Pim Off di Milano _ 28-30 Gennaio 2011
“Lo Oidio detto anche mal bianco, nebbia o albugine è una malattia trofica delle piante causata da funghi”. Si tratta, in parole povere, di una candida muffa lattiginosa che attacca fiori e piante rendendo i loro profili sfuocati, trasformandoli in polverosi fantasmi vegetali.
Gli Zaches Teatri, gruppo fiorentino formatosi nel 2006, non si occupano di botanica, né di micologia, eppure la loro ultima fatica, presentata al Pim Off in prima nazionale, porta lo stesso nome della malattia che fa arricciare il naso agli amanti del pollice verde: Mal Bianco.
Secondo capitolo di un progetto più ampio, una trilogia della visione iniziata con “Il fascino dell’idiozia” ispirato iconograficamente alle pitture nere di Goya, Mal bianco assume invece Hokusai (il maestro giapponese de l’Onda) come punto di riferimento per la ricerca delle immagini.
Già perché la cifra stilistica dello spettacolo è proprio l’immagine, la visione, o per essere più precisi il “manga”. Ma non ingannatevi: i fumetti giapponesi c’entrano poco o niente.
“Il termine è di difficile traduzione: l’ideogramma man, che definisce una cosa priva di seguito, frammentaria, confusa o destrutturata, rimanda a un’idea di totale spontaneità, di fermento anarchico, che si coniuga con il ga, disegno. Si tratterebbe, pertanto, di disegni eseguiti sotto l’impulso dell’ispirazione, liberamente e senza ordine, di rapidi schizzi sui più svariati soggetti, bozze, figure grafiche estemporanee.”
Questo quanto si trova nell’introduzione al volume “Hokusai Manga” e che, con altrettanta precisione, inquadra (ed è il caso di dirlo) lo spettacolo-performance degli Zaches. Il succedersi delle scene-dipinto non sembra infatti corrispondere ad alcuna sequenza narrativa, si tratta piuttosto di suggestioni dall’alto contenuto formale.
Giocolieri artigiani si alternano a donne siamesi unite da un’unica chioma, spettri che cercano di evadere da prigioni di luce lasciano il posto a uccelli antropomorfi (maschere kabuki?)
Le fascinose coreografie e l’ipnotico tappeto musicale che accompagnano lo spettatore durante l’intera rappresentazione (35 minuti di puro stupore) completano il gran lavoro d’atmosfera dettato dalla luce.
Ed è proprio quest’ultima la chiave per interpretare lo spettacolo.
Viktor Sklovskij -formalista russo noto per i suoi scritti sulla teoria della letteratura- sosteneva grosso modo che la differenza tra la poesia e la prosa consiste nel fatto che la prima non cerca di dare una presa di coscienza, una consapevolezza, ma offre una visione, un modo di percepire e lo fa attraverso lo straniamento dell’oggetto rappresentato affinché l’opera sia lontana dalla propria natura. Alienata.
L’effetto poetico, dunque, come risultato di una specie di miopia che non consenta di mettere a fuoco qualcosa di comune, per indirizzare piuttosto il fruitore verso un’idea, una sensazione dai contorni incerti evocata dall’oggetto preso in esame.
Ovattata, diffusa, rarefatta, (grazie anche alla quarta parete di tessuto che separa il pubblico dalla scena), la luce in Mal bianco deforma la percezione dello spettatore e gli restituisce l’immaginazione poetica. È una scelta programmatica, dichiarata dagli stessi autori: gli spettatori sono chiamati ad una forma specifica di interazione, non fisica, ma immaginativa, dato che sono loro a completare il senso dell’opera. Il ricorso ad un linguaggio universale è paragonabile, per noi, ad un seme capace di attecchire su qualsiasi terreno, ma destinato a generare in ogni campo una pianta diversa. Sono gli spettatori a decidere quale creatura nascerà dalla nostra semina.
In questo caso, ci sentiamo di aggiungere, si tratta di una gran bella pianta, un esemplare di quelli che difficilmente vediamo nei giardini-teatro italiani e che meriterebbe grande affluenza di pubblico.
Avvolgente, equilibrata, di grande effetto. Unico neo: è sicuramente affetta da Oidio.
Corrado Rovida