Permettere a tutti «di capire o almeno di immaginare come “suonano”, come “sono”, al di là del loro significato letterale» i versi di Carlo Porta. In queste parole di Giovanni Raboni è da trovare la ragione della traduzione di alcuni testi del poeta milanese che Patrizia Valduga ha da poco dato alle stampe. E chi la conosce sa quanto contino il ritmo e la musicalità nei suoi lavori. Tanto che l’intera sua produzione sembra correre sullo spartiacque sottile fra poesia e teatro. Non stiamo pensando solo alle traduzioni di drammaturghi come Shakespeare e Molière o ai testi nati per il palcoscenico (Corsia degli incurabili, atto unico scritto in poesia per l’attrice Franca Nuti)… provate a leggere ad alta voce i dialoghi appassionati delle Cento quartine o le disperate preghiere del Libro delle laudi. Poesia o teatro? La categoria poco importa, perché la parola ha corpo anche senza attori, la parola, come Valduga scrive in Medicamenta, «sa sedurre la carne».
Cominciamo con la traduzione delle poesie di Porta. Nella prefazione scrive che «nella traduzione la fedeltà alla forma è l’unica forma di fedeltà». Ci può spiegare che cosa intende?
La poesia è essenzialmente forma: una successione ordinata di suoni e di ritmi. Anche i versi cosiddetti liberi non sono mai liberi, devono andare a capo secondo una loro intrinseca necessità. E questo ordine, questa necessità ritmano il significato, anzi, i significati: la poesia deve sempre dire di più di quello che dice.
Se ogni traduttore dà vita, almeno in parte, a un’opera nuova, quali aspetti di questa traduzione appartengono di più al suo sentire poetico?
Penso che un buon traduttore non dovrebbe lasciare traccia di sé; dovrebbe mettersi al servizio di quel testo non suo, starci insieme a lungo, capirlo in tutte le sue intenzioni, diventargli amico, ascoltarne la voce, il respiro; e poi cercare di riprodurre tutto questo.
Come ha gestito una lingua così espressiva come il dialetto milanese di Porta?
L’ho trattata come una lingua straniera, come ho trattato le altre lingue che ho tradotto. Anche la lingua di Shakespeare è molto espressiva, e anche quella di Mallarmé, a modo suo.
Tanto dalla sua produzione da autore quanto da questa traduzione, che rispetta con precisione le forme di Porta, emerge una sorta di ossessione per la forma chiusa. Come mai?
Uso la forma chiusa perché non so usare la forma aperta. Perché so a memoria tante poesie in forma chiusa, le amo e mi fa bene dirmele.
Di raccolta in raccolta la sua lingua sembra farsi sempre più semplice e scarna. Perché si è così allontanata dal manierismo dei Medicamenta?
Credo sia successo a partire da Requiem: per raccontare la morte di mio padre mi vergognavo a fare sfoggio di maestria, di parole ricercate, volevo essere semplice e immediata.
Quanto la ha aiutata la poesia nella definizione della sua identità e nella comprensione di sé stessa?
La poesia è da sempre per me un conforto, una medicina (contro gli attacchi di panico mi recito un po’ di versi, non miei, naturalmente). Ma per l’intelligenza di me e del mondo forse sono stati più importanti due grandissimi della prosa: Flaubert e Proust. E un trauma dell’infanzia l’ho scoperto con Sade…
Dai suoi testi emerge una soggettività molto intensa: che cosa spera di comunicare ai lettori con le sue raccolte poetiche?
Spero di comunicare soprattutto la mia passione per la poesia, la mia gioia a scriverla, il mio piacere a leggerla.
In alcune sue raccolte, come Requiem e Il libro delle laudi, c’è una forte dimensione religiosa. Lei crede in Dio?
Ho un’educazione cattolica e, come mi ha insegnato Raboni, mio maestro e mio amore, credo nelle anime.
Andrea Maletto e Martina Toppi
Questo contenuto è parte del laboratorio Fuori_riga, osservatorio critico su Tempo di Libri, a cura di Stratagemmi Prospettive Teatrali.