visto allo Spazio Tertulliano di Milano _ 17-21 ottobre 2012
Ci sono lei, lui, l’altro, e fin qui niente di strano. Ma il testo di Harold Pinter, Tradimenti, va ben al di là del classico ménage fra marito, moglie e amante. Il tradimento qui è una condizione onnipresente, esistenziale, quasi necessaria: tutti ingannano tutti e, alla fine, non è detto che sia proprio la scappatella il peccato più grave. Si comincia dalla fine: Jerry ed Emma, a lungo amanti, si rivedono a due anni dalla fine della loro storia. Dopo i faticosi convenevoli di rito, lei ammette di aver confessato al marito (Robert: miglior amico di Jerry, suo testimone di nozze) della loro tresca. Comincia così un viaggio a ritroso nel tempo, durante il quale lo spettatore, pur sapendo già tutto, scopre passo passo nuovi dettagli. Un pezzo alla volta, si compone così il puzzle di quei rapporti falliti. Emma tradisce Robert, Jerry la moglie Judith. Emma inganna pure Jerry, perché confessa tutto al marito ma non glielo dice. E Jerry, il traditore, si sente quindi imbrogliato anche dall’amico: «Perché» gli chiede sbigottito, «non mi hai detto che sapevi, brutto stronzo?». Lo stesso Robert, poi, non si è mai fatto problemi a frequentare altre donne. Moglie e marito, amante o amico, non ci si può fidare di nessuno.
I personaggi rimandano all’ambiente nel quale l’autore stesso si muoveva. Jerry è agente letterario, Robert editore. E infatti Tradimenti nasce da uno spunto autobiografico: Pinter, sposato con l’attrice Vivien Marchant, visse una relazione lunga sette anni con la presentatrice televisiva Joan Bakewell. Scritta nel 1978 e ambientata tra Londra e Venezia, questa è una delle commedie più famose dello scrittore premio Nobel, portata sul grande schermo da attori come Jeremy Irons e Ben Kingsley.
Nella messa in scena vista al Tertulliano la scenografia è scarna: giusto un tavolo e qualche sedia che danno corpo all’appartamento preso in affitto da Jerry ed Emma, il luogo fisico del tradimento e insieme emblema di tutti i tradimenti: lo spazio-universo dove prendono corpo le ambigue emozioni che emergono dall’affettato fair play dei protagonisti ed emerge l’ipocrisia dei rapporti, continuamente stravolti. E dove torto e ragione sfumano fino a diventare indistinguibili.
L’atmosfera, piuttosto cupa, mette a disagio gli spettatori. L’interno borghese sta per esplodere. Ci gioca, il regista Antonio Mingarelli, su questo fastidio, soffermandosi proprio sugli aspetti più inquietanti della drammaturgia pinteriana, fatta per scardinare le sicurezze di chi guarda. Si inventa una voce fuori campo, una macchina da scrivere, a scandire il tempo cronologico, come ad ancorare alla realtà quello che sembra un incubo in cui niente è ciò che sembra. E i tre giovani protagonisti (Fabrizio Martorelli, Alberto Onofrietti, Cinzia Spanò), dal canto loro, sono bravi soprattutto nell’interpretare i passaggi più assurdi del testo, quelli in cui i personaggi si comportano in modo apparentemente inspiegabile. Ma nella seconda parte dello spettacolo qualcosa smette di funzionare nel meccanismo finora ben oliato. I protagonisti diventano più simili a robot che a persone in carne e ossa, la recitazione è troppo carica, troppo anti-naturalistica. Gli accadimenti prendono a svolgersi in maniera troppo lenta e farraginosa (pur volendo conservare il testo integralmente, qualche cambio di ritmo in più avrebbe giovato). È pur vero che permane quella sensazione di fastidio da cui lo spettatore non riesce a liberarsi e che è la cifra con cui interpretare questo classico pinteriano. La realtà è sempre più penosa dei nostri incubi, come mostra lo squarcio che l’autore apre sul velo delle convenzioni. «Nelle sue commedie scopre il baratro che sta sotto le chiacchiere di tutti giorni», scrisse nel 2005 l’Accademia di Svezia consegnandogli il Nobel: ed era, ovviamente, un complimento.
Giacomo Fasola