A MilanOltre hai portato Prometeo: Architettura-Milano e And it burns burns burn, due lavori che riprendono il mito dell’eroe greco. Perché questa scelta e quali legami credi possa avere la figura di Prometeo con la contemporaneità?
Il progetto nasce dalla convinzione che quello di Prometeo sia un mito in qualche modo attuale, e la ricerca del lavoro si è sviluppata proprio attraverso la sua trasposizione nella contemporaneità. Il filo conduttore per tutti e sei i quadri che compongono l’intero progetto non è una dimensione narrativa, bensì una riflessione sulla technè, sul “saper fare” inteso come possibilità generativa di un codice gestuale che diventa poi scrittura coreografica. E così come Prometeo porta il fuoco all’umanità, condividendo questo dono che lo rende consapevole e “capace di fare”, allo stesso modo ogni codice gestuale vive nella condizione della trasmissione e della socialità. Lo si può percepire chiaramente nel ripetersi di elementi e gesti, comuni a ogni quadro, e nella dimensione relazionale di corpi, che coesistono nello spazio dialogando e sperimentando la ‘multiformità’ dell’incontro. Nel Dono (terzo quadro del progetto Prometeo ndr) viene rotta quella cornice che racchiudeva gli accadimenti in un luogo definito e circoscritto (il palcoscenico) con un atteggiamento di isolamento rispetto al “fuori”, e si apre allo stesso tempo anche a una dimensione oscura presente nel mito, che, volendo, potrebbe alludere al capovolgimento della relazione tra uomo e tecnologia.
Nei tuoi spettacoli si assiste a un continuo dialogo tra i corpi dei danzatori e lo spazio. Come interpreti lo spazio dal punto di vista della composizione coreografica e che ruolo ha rispetto al movimento?
Lo spazio è un interlocutore imprescindibile per il corpo, quello tra lo spazio e il movimento è un dialogo inevitabile e illimitato perché è proprio il modo in cui l’anatomia si pone in relazione allo spazio che crea il movimento. Per me il concetto di spazio e il concetto di luogo sono distinti: mentre il primo è astratto non ha confini ed è infinitamente apribile e deformabile, il luogo dove accadono le cose – prima la sala e poi la scena – è concreto e ha un perimetro definito e una specifica architettura. Allora nella composizione coreografica lavoro con lo spazio con la consapevolezza che sia un contenitore vuoto ma allo stesso tempo denso di informazioni geometriche latenti, da “attivare”. Lo spazio si riempie e prende forma grazie all’agire del corpo che innesca una serie di relazioni con le geometrie e i piani di ciò che lo circonda.
Spesso hai a che fare con dei giovani danzatori, anche molto piccoli. Cosa ti interessa del lavoro con loro e quali sono le difficoltà che si possono incontrare?
Il lavoro con i giovanissimi è iniziato nel 2012, quasi casualmente, in seguito a un laboratorio durante il quale ho incontrato una ragazzina con cui ho trovato una potente ed ‘energica’ corrispondenza: il suo approccio ginnico, la sua ostinazione nel movimento mi hanno ricordato me da giovane! Così il suo insegnante mi ha proposto di realizzare un duetto con lei, da realizzare nella cornice di un piccolo festival che organizzava. Questo incontro è stato il risveglio di un pensiero antico rispetto al movimento e ha prodotto una serie di riflessioni che hanno iniziato a interessarmi e che poi, nel tempo, hanno trovato possibilità di concretizzarsi in lavori sempre più strutturati. In questo percorso coi giovanissimi, fin da subito, sono rimasta affascinata da come i ragazzi reagiscano nella dimensione di “accordatura” del movimento – che è principalmente il mio lavoro. Parlo con loro come con gli adulti, cercando di spiegare e trasmettere gli aspetti fondamentali: produrre forme, ascoltarsi reciprocamente e dialogare fra di loro. A differenza degli adulti, i giovani cercano la rapidità e un immediato riscontro fisico, così, da coreografa, appare subito chiaro quando centri il tuo obiettivo o quando fallisci, perché magari non sei riuscito a dare loro un terreno concreto su cui appoggiare ciò che stanno facendo. Questo è un aspetto di bellezza e di difficoltà che mi intriga sempre e mi ha anche molto aiutato nel lavoro con gli adulti. Un altro aspetto del lavoro con i ragazzi molto giovani è la fragilità delle loro “prospettive anatomiche ed emotive”, che sono ancora in crescita. Questa caratteristica mi piace molto perché aumenta lo stato di imprevedibilità della messa in scena, facendomi provare ogni volta un brivido.
Chiara Di Guardo
Questo contenuto è parte dell’osservatorio critico MilanOltreView