di Maddalena Giovannelli, Francesca Serrazanetti, Gioia Zenoni
1. il frigorifero
C’è sempre un perché al dolore? È “una donna melanconica al frigorifero” Daria Deflorian, quando rompe il silenzio di una scena immobile per dare voce a una tristezza soffocante di cui cerca instancabilmente una ragione. Si apre così uno squarcio di quotidiano, giocato con l’autoironia di una donna di cui si sente viva la solitudine, il rimpianto per un’altra vita sognata e che invece è finita per essere quella che è. L’abbandono ai propri pensieri prende la forma di un dialogo con il frigorifero, solo amico che sa ascoltare, dare luce e qualche conforto a un appetito generato dalla noia. Perché l’unico sfogo in questo istante per Daria è cercare qualcosa da “mangiucchiare”, non tanto per la fame ma per tenersi compagnia. E il confronto con una dispensa fatta di carote rinsecchite, banane annerite, barattoli ammuffiti, qualche mozzarella mangiata in piedi con le mani, fa emergere una trasandatezza del quotidiano di chi vive con se stesso, si veste bene per stare in casa perché tanto, fuori, non c’è niente da fare. Ma Daria, in realtà, non è sola. C’è una figlia di cui non si accorge ma di cui pretende l’ascolto, e che anche quando non ascolta, dice lei, in realtà ascolta. Una figlia che si porta dietro l’indolenza della madre ma che cerca di reagire, di trovare le sue vie di uscita parlando delle uniche cose che – nella sua ingenuità infantile – sembrano avere importanza: il comportamento degli uccelli e il suo compleanno. E poi c’è l’analista, che prende le fattezze di una maschera impersonale e inquietante, incapace di dare conforto.
La drammaturgia di Lucia Calamaro compone un lucido e abbagliante “ritratto di interno”, che non ha bisogno di un inizio o di una fine. I frammenti del quotidiano si aprono in stanze delimitate dalla luce e ordinate dalla presenza di pochissimi oggetti. Nell’allestimento del Franco Parenti l’“interno” sembra essere un appartamento esploso, sezionato in lunghezza per lasciare spazio all’osservatore. Le stanze si aprono a pochissima distanza dai nostri occhi, separate dai pilastri di una sala di per sé poco felice, che contribuisce invece all’autenticità delle azioni. Si chiude il primo episodio, e la sensazione è quella di uscire per poi rientrare in un appartamento dove la vita è andata avanti, sempre uguale a se stessa, agita da tre donne che interpretano l’intensità dell’essere umano con ironia. E il contrasto tra la profondità del vivere in un dolore che non trova ragioni e la leggerezza dei momenti passati tra gli elettrodomestici, nell’incertezza del non sapere cosa fare, si fa accogliente e spiazzante.
F.S.
2. la lavatrice
Ombelico del microcosmo domestico di questo quadro, la lavatrice è una metafora non troppo implicita di un ciclo di ossessioni che, dalle origini del mondo, si ripetono ineluttabilmente di madre in figlia.
Insieme la contemplano, la accudiscono, ne analizzano i meccanismi come se si trattasse di una persona capricciosa che ostenta delle scelte avverse alle loro aspettative. E da essa, che le obbliga a un’attesa, si aspettano una risposta che non può arrivare.
La staticità del primo quadro lascia qui spazio al movimento, con l’irrompere insperato di una nuova figura femminile, quella della nonna (Daniela Piperno). Con il suo dinamismo fisico e verbale, la giovane nonna scardina, in apparenza, la routine domestica, sconvolgendo la tranquillità di una domenica in pigiama: il suo ossessivo incedere avanti e indietro, in realtà, non fa che asseverare, linearmente, il ciclo stesso della lavatrice, della parola di sofferenza che non trova una via di fuga.
Daria diviene un’ombra inerme, derisa della sua fragilità dalla stessa genitrice, che da un lato la sprona a tuffarsi nella vita e dall’altro, con il suo soffocante autoritarismo, tarpa ogni tentativo di dispiegare le ali: un copione ben noto da famiglia borghese, di cui Lucia Calamaro ha saputo mettere in scena i paradossi con sottile e amara lievità.
E proprio il carattere che sembra vincente rivela, al contrario, la familiarità del morbo destinato a divorare, pian piano e in modalità differenti, le tre donne: l’occasione è offerta da un’innocente divagazione su uno dei più negletti utensili domestici, lo strofinaccio, che altro non è se non l’emblema della trasmissione di rituali ancestrali. La capacità critica – che nella nonna e nella nipote hanno prodotto rispettivamente una distaccata consapevolezza della realtà e una vocazione a lenire i dolori del mondo – è per la protagonista una forza autodistruttiva, che la avviluppa in una centrifuga per cui non esiste il tasto stop.
G.Z.
3. il lavandino
Cosa accade quando il volto asettico e impersonale dell’analista diventa quello di una donna in carne ed ossa? Quando davanti a noi non abbiamo più una terapeuta ma una persona con le sue paure, i nervosismi, le idiosincrasie?
Il volto di Federica Santoro/analista – che nel primo quadro era una maschera dai tratti inquietantemente alterati – d’improvviso appare familiare e diviene fin troppo umano. Daria piomba allora in un silenzio ostinato, raggelata dall’impossibilità di arrivare all’altro se non con una comunicazione di puro intrattenimento: bisognerebbe essere capaci di uno scambio “da dentro a dentro”, chiosa, e per questo tace.
Prosegue allora sotto gli occhi dell’annichilito spettatore una snervante routine di cappotti allacciati per uscire di casa e borse raccolte da terra a fine seduta, di “Buongiorno Daria” e di “come è andata la settimana?”. La non-comunicazione tra le due donne è però incredibilmente rumorosa per il pubblico, che si trova alle prese con il loro chiacchiericcio interiore, in un ininterrotto flusso di frustrazione, incapacità di agire, auto-rappresentazione del reale. Il testo di Lucia Calamaro porta il pubblico sulle montagne russe di un pensiero ossessivo non filtrato e non disciplinabile, che parte dalle sigarette per arrivare a un’invettiva rivolta al proprio inconscio (“se ti acchiappo, non sai cosa ti combino”) passando per la morte di Zanzotto. E mentre nel buio delle sedie ci si augura che Daria e Federica tacciano per un istante, che prendano fiato almeno per un momento, ecco che si fa strada una sottile fitta di angoscia: e se quelle voci non fossero sul palco, fuori da noi? e se per fermarle non bastasse uscire dalla sala affollata del Franco Parenti?
Ma Lucia Calamaro è pronta a offrire l’antidoto, e lo fa nel passaggio al quarto ed ultimo episodio dello spettacolo: sono le cose il nostro rifugio, salvifiche perché “lontane da noi” e perché “ogni esperienza del reale può guarirci”. A spiegarcelo è Federica/figlia mentre parla alla madre Daria – non a caso – davanti a un rassicurante lavandino. Si torna a casa grati del silenzio, mentre si ascolta l’eco di quelle parole impervie (che solo tre attrici straordinarie possono pronunciare in così lieve fluire) e si approda, come a un porto, alla sicurezza dei propri oggetti domestici.
M.G.