Camicia sbottonata, canotta bianca, pantaloni di velluto, collanina d’oro. L’ingresso in scena di Crazy Bosnian Guy – unico personaggio dello spettacolo A volo d’angelo, scritto e diretto da Federica Cottini – attiva fin da subito un immaginario vivido, quasi da cartolina. È l’estetica dei Balcani degli anni Novanta, una faglia temporale segnata dalla transizione post-socialista e dalla riconfigurazione geopolitica. In quella figura si condensano i tratti di una generazione cresciuta nella precarietà e nell’arte dell’arrangiarsi, con la battuta pronta e un po’ di gel nei capelli.
A dare corpo a questo istrionico cinquantenne, nello Spazio Polline di Villapizzone, è Michelangelo Canzi, giovane attore nato nel 2000. Il cortocircuito temporale – tra età narrata e età reale del performer, ma anche tra memoria e presente – costituisce una delle chiavi compositive della messinscena. La struttura drammaturgica rifiuta ogni linearità cronologica, scegliendo una partitura montata su frammenti. Una volta entrato in scena, il protagonista senza nome si presenta come guida turistica della città di Mostar e chiede al pubblico di scattargli una foto. Da lì, la narrazione si apre in un montaggio di ricordi, riflessioni e visioni interiori: ci conduce tra le trincee della guerra dei Balcani, quando la voce narrante aveva diciannove anni e portava munizioni al fronte; poi nel dopoguerra, segnato da precarietà emotiva, depressione e dipendenze; ancora nella sua infanzia, quando sognava di fuggire da una Jugoslavia già percepita come marginale. Si spinge, infine, fino a un futuro immaginato: con lucidità e ironica dolcezza, l’uomo prefigura il mondo dopo la propria morte e fantastica sulle esistenze di coloro che gli sopravviveranno – la moglie, i figli, i nipoti.
In questa tessitura discontinua, la guerra non è ricostruita come evento storico, ma attraversata come trauma, individuale e collettivo. È uno spartiacque che frantuma e ricompone i confini della soggettività. Crazy Bosnian Guy, uomo qualunque miracolosamente sopravvissuto, ha vissuto in prima persona un conflitto costruito sulla contrapposizione etnica e religiosa, ma smonta dall’interno l’idea stessa di identità. «Io sono musulmano perché nel Medioevo hanno pagato il mio bisnonno per convertirsi», afferma con amara ironia, rivelandone la natura contingente, accidentale, storicamente indotta.
Di riflesso, sotto l’ineluttabile fluire della Storia, anche l’identità degli spazi si fa instabile. Il protagonista nasce nella Jugoslavia di Tito, ne attraversa il disfacimento e si ritrova in una nazione nuova, più industrializzata e occidentalizzata. I luoghi cambiano volto: vengono distrutti, poi ristrutturati, riconvertiti, restituiti a nuove funzioni o configurazioni. Emblematico, in tal senso, è il caso del ponte di Mostar, distrutto nel 1993 e ricostruito nel 2004. È da lì che i ragazzi del luogo si tuffano “a volo d’angelo”: un gesto di ostinazione e coraggio, ma anche una tradizione locale che precede il conflitto e lo sopravvive.
Dopotutto, A volo d’angelo è anche – e forse soprattutto – una riflessione sull’ambiguità della memoria. Il racconto è gesto di resistenza, tentativo di sottrarre all’oblio una storia rimossa. Ma è anche esibizione, narrazione offerta allo sguardo altrui, persino messa in vendita: «My pain is my business», dice la guida al pubblico di turisti venuti ad ascoltare la sua storia.
«Take a picture» è la prima e l’ultima battuta del testo. In apparenza, una gag, un gesto da intrattenitore. Ma nel suo ritorno, ossessivo e sommesso, si addensano altri significati: è una richiesta d’attenzione, un’àncora contro la dissolvenza e l’oblio. E proprio in quella richiesta – ironica, fragile, disarmata – si annida un ribaltamento silenzioso: il pubblico non è più semplice spettatore, ma diventa testimone. La responsabilità non è più solo di chi racconta, riguarda anche chi ascolta. Cosa comporta, oggi, restare a guardare? E, soprattutto, cosa scegliamo di fare con ciò che abbiamo visto?

Alessandro Stracuzzi 


immagine di copertina: foto di Alessandro Villa

A VOLO D’ANGELO
regia e drammaturgia di Federica Cottini
con Michelangelo Canzi

Spettacolo vincitore del Premio del pubblico 2025

La recensione fa parte dell’osservatorio critico dedicato a FringeMI Festival 2025