Per un’indagine del tempo: Alessandro Sciarroni e Alex Baczyński-Jenkins
Il tempo come movimento all’unisono, ma anche come reiterazione, scavo nel passato oppure avvitamento perpetuo: pur nella decisa diversità d’impianto, i due lavori presentati da Alessandro Sciarroni e da Alex Baczyński-Jenkins in quest’ultima edizione del Festival di Santarcangelo mostrano, se affiancati, due possibili traiettorie di riflessione sulla temporalità in relazione alla scena, all’effetto che un certo utilizzo delle qualità del tempo può avere sulla platea, alle dinamiche tra danzatori e performer, tra lo spazio e la presenza fisica che lo abita.
In U. (un canto), Sciarroni compie uno scavo filologico per recuperare il racconto di una vicinanza tra uomo e natura, attraverso l’esecuzione di dodici canti corali della tradizione italiana composti tra il 1968 e il 2019 (undici a dire il vero, il dodicesimo è scritto e composto dallo stesso Sciarroni). Il coro, composto da sette bravissimi performer (qui cantanti meravigliosi, ma altrove altrettanto notevoli attori e danzatori) sembra collocarsi in una dimensione di allontanamento dalla frenesia quotidiana per tentare un avvicinamento al divino, al trascendente nascosto nella natura che ci circonda. Lo scorrere del tempo viene segnato solamente dal susseguirsi dei brani, intervallati dall’esalazione di un respiro marcato: i movimenti dei performer sono minimi, a tratti quasi impercettibili, ed ecco così che la voce prende il posto dei corpi, restituendo una forma di movimento. I momenti di pausa dal canto sono numerosi, ampi e tangibili: questo spazio viene lasciato agli spettatori per fare i conti con un innegabile sentimento di nostalgia, evocato dalla musica e dalle parole dei brani ascoltati insieme, e orientato però alla ricerca di una forma di riconciliazione e di quiete possibile.
Due portali luminescenti; cinque danzatori che li attraversano, creature magnetiche che sembrano provenire da un altrove indefinito, quasi alieno; al centro un albero scarno e sinuoso che ricorda lontanamente quello realizzato da Giacometti per la messinscena di Waiting for Godot. In Malign Junction (Goodbye, Berlin) di Alex Baczyński-Jenkins i performer sembrano intrappolati come Vladimir ed Estragon in un eterno presente, costretti alla reiterazione di un movimento cardine, diverso per ciascuno, e sottoposto solo a minime variazioni. Baczyński-Jenkins crea un affascinante spazio sospeso in cui i danzatori giocano con l’impossibilità di un’azione autonoma, con un disorientamento che li costringe alla prossimità con un altro corpo, situato all’interno della pedana che delimita il loro movimento nello spazio. Solo in questo incontro, nella condivisione della ripetizione di un gesto, nella vicinanza dei corpi, sembra labilmente apparire uno spiraglio di libertà: in quegli istanti i danzatori riescono a dare sostanza a un’efficace sensazione di tensione che si propaga anche nella percezione degli spettatori. Una liberazione che resta però momentanea: i corpi presto si allontanano nuovamente, tornando, e facendoci tornare, a una dimensione di attenta attesa, che potrà essere interrotta solamente da una nuova possibilità di avvicinamento, altrettanto fallimentare, eppure auspicata e necessaria.
Bianco su nero, una questione di sguardo
Qui a peur, Have a Safe Travel e Cinema Impero mostrano tre sfaccettature della relazione tra persone bianche e persone nere, in tre differenti luoghi: la Svizzera, il vagone di un treno e l’Eritrea sotto la dominazione italiana.
Qui a peur, dell’artista svizzera di origini togolesi Davide-Christelle Sanvee, prende avvio dall’impatto fortemente segnante di un gioco tradizionale svizzero, con cui l’autrice e attrice dello spettacolo si è ritrovata a dover fare i conti durante la sua infanzia. Ecco allora che Sanvee sceglie di riproporre la stessa inquietudine da lei provata da bambina nello spazio scenico del teatro Petrella di Longiano – un teatro all’italiana privato delle sedute della platea – in cui l’attrice svizzera si muove, e dove spettatori e spettatrici si ritrovano sparsi, ciascuno seduto in maniera casuale su una delle seggiole consegnate all’ingresso. Sanvee si aggira tra gli spettatori bendata, e chiede al pubblico di aiutarla a orientarsi, a non farsi male. Segue le indicazioni spaziali fornitele da una voce che pare onnisciente, posta in osservazione di tutto ciò che accade. Nel frattempo, l’attrice restituisce a chi la osserva il peso di tutti gli sguardi ignoti e indagatori presenti in sala, e del giudizio che sente incombere: «le persone hanno paura che mi avvicini troppo e le contamini», proprio come accadeva durante il gioco che ha funestato la sua infanzia. Ed ecco così che, passo dopo passo, frase dopo frase, Davide-Christelle Sanvee spinge spettatori e spettatrici a interrogarsi sulla non neutralità del proprio sguardo, e quindi inevitabilmente del proprio posizionamento, riuscendo a creare un momento di vertiginosa compresenza teatrale e fisica, tanto destabilizzante quanto funzionale: nel momento in cui l’attrice si toglie la benda e si guarda intorno sembra quasi di vedere per la prima volta lo squilibrio numerico di rappresentanza nera nella stanza, costituita infatti dalla sola Sanvee. Manca nei fatti, anche in un festival come quello di Santarcangelo, attento e sensibile alle questioni decolonialiste e alla presenza di artiste e artisti nel cartellone che sappiano restituire una pluralità di provenienze, la reale presenza di un pubblico ampio e variegato. Lo sguardo degli spettatori e delle spettatrici si trasforma così in fardello difficile da sopportare, e di cui ciascuno riesce a percepire la violenza e il peso, dichiarato e sottolineato dalle parole e dal vissuto della stessa attrice. Questa vertigine iniziale, di estrema potenza ed efficacia, si perde però con il prosieguo dello spettacolo: la costruzione drammaturgica si incaglia in una struttura a tesi, volta a sostenere una ricostruzione di alcuni episodi di razzismo storicamente vissuti dalle prime persone nere arrivate in Svizzera. Il forte desiderio didattico che anima la scrittura di Sanvee arriva a depotenziare il senso di impotenza e di invisibilità che l’artista cerca invece di condividere. Anche il senso di inquietudine diffuso e ricreato negli spazi del teatro Petrella attraverso l’evocazione della presenza di un fantasma risulta scarsamente credibile, forse proprio perché la narrazione è ormai stata totalmente collocata all’interno di un regime più didascalico che evocativo.
Di sguardo parla anche Have a Safe Travel di Eli Mathieu-Bustos: il performer e danzatore belga racconta, attraverso la sua sola presenza fisica (sostenuta da un inquietante gioco di luci) un episodio di violenza subito in occasione di un viaggio in treno. La sua figura restituisce il trauma vissuto e immagazzinato da un corpo nero sottoposto ai soprusi di un intervento brutale, immotivato e violento da parte della polizia. Un semplice controllo di routine trasforma l’atto di osservare e indagare in uno strumento di sospetto, viatico dell’emersione di una violenza fisica distruttiva, raccontabile unicamente attraverso l’emersione dei segni impressi sul corpo: ogni attacco, ogni gesto brusco, ogni parola insultante si trasformano in un colpo inferto, metabolizzato e restituito con toccante efficacia da Eli Mathieu-Bustos. Il processo di introiezione e restituzione fisica della violenza subita però, pur manifestandosi con forza ed efficacia nella prima metà della performance, risulta in parte ripetitivo e prevedibile con il procedere della tessitura coreografica.
Cinema Impero di Muna Mussie, vincitore del bando blOOm — rete di residenze e produzioni dedicate alla realizzazione di spettacoli one-to-one — riesce invece a sostenere la potenza del nucleo originario del lavoro per tutta la durata della performance. La versione originale della creazione ideata da Mussie è stata realizzata durante la prima settimana del festival, nella seconda invece il lavoro è stato ricreato in una versione fruibile da un pubblico più ampio di operatori e critici, per non perdere l’occasione di prendere parte alla visione e all’ascolto di Cinema Impero, il cui nome deriva dall’omonimo cinema costruito nel 1937 ad Asmara dalla dominazione fascista. Nella versione originale, l’artista eritrea si siede accanto a uno spettatore o a una spettatrice sola nella sala di C’entro – Supercinema Santarcangelo e commenta nell’orecchio, a bassa voce, le immagini che scorrono sullo schermo: i filmati recuperati dall’archivio dell’Istituto Luce relativi alla dominazione italiana in Eritrea durante il fascismo sono montati insieme ad alcune riprese recuperate dall’archivio personale dell’artista. I materiali video vengono commentati e descritti sia da Mussie che dalla voce di un’intelligenza artificiale programmata per leggere e descrivere le immagini riprodotte, con errori e approssimazioni che creano un effetto comico ae l contempo straniante, vista l’ampia distanza che spesso separa ciò che vediamo dalla descrizione che invece sentiamo. Questa distorsione restituisce il senso delle modalità di intervento italiane in Eritrea e la narrazione degli eventi accaduti che ne è conseguita: il linguaggio diventa così un mezzo per orientare lo sguardo ma anche un violento e ambiguo mezzo di distorsione, e lo strumento cinematografico si mostra anche nel suo essere una modalità di rilettura, di selezione parziale e scorciata del reale.
L’impegno: relazioni tra funzione e senso
La distanza tra i lavori di Sciarroni, Baczyński-Jenkins e Mussie da una parte, e quelli di Sanvee e Mathieu-Bustos dall’altra, è legata a una tendenza del contemporaneo che Rossella Menna ha problematizzato in un articolo del 2022 pubblicato su doppiozero: «A Santarcangelo si vede più che altrove dove sta andando, ovvero dove si è installata, l’ala radicale della performatività: non tanto dal punto di vista delle forme, ma proprio sul fronte dei valori, delle rivendicazioni culturali, della funzione che si attribuisce al fare artistico. Funzione, appunto, e non senso, eccoci subito al punto. In una serie di scritti pubblicati a partire dagli anni Novanta, riferiti in particolare al fenomeno dell’animazione teatrale, l’antropologo Piergiorgio Giacché denunciava una deriva che ai suoi occhi sembrava coinvolgere tutti i campi dell’arte: il crescente predominio della funzione sul senso».
Rispetto a queste due possibili traiettorie, quella della funzione e del senso, mi pare che i primi riescano a tenerle insieme con esiti equilibrati, rendendo quasi impossibile l’individuazione del punto di separazione tra le due questioni, evitando un esplicito impiego dell’arte come viatico di rivendicazione politica. Sciarroni, Baczyński-Jenkins e Mussie lavorano sulla restituzione di un’ambiguità, di una polisemia, di una stratificazione di sensi possibili celati all’interno delle loro creazioni, capaci di determinare un possibile valore conoscitivo del processo artistico rispetto alla realtà e al mondo che abitiamo.
Ripenso anche a una considerazione espressa dalla stessa Sanvee in occasione di uno dei talk realizzati durante il festival (intitolato No More Fear) legata alla richiesta a lei indirizzata di portare un suo lavoro in Togo, il suo Paese d’origine. L’artista svizzera racconta di aver realizzato solo in quel momento, con sorpresa e difficoltà, di non avere alcuno spettacolo da poter mettere in scena di fronte a un pubblico di persone nere: tutta la sua ricerca si è infatti fin qui concentrata unicamente sul concetto di arte come strumento di sensibilizzazione delle persone bianche rispetto al loro privilegio, al peso del loro sguardo. Questa considerazione di Sanvee mi pare molto interessante per raccontare cosa accade nel momento in cui il linguaggio teatrale viene trasformato in strumento di rivendicazione politica. Da una parte ne deriva un processo ideativo attivato a partire da un’urgenza concreta, una forma di oppressione quotidiana e talmente cogente da averle impedito di creare al di fuori di questa dimensione; dall’altro un esito artistico che trova degli ostacoli nel momento in cui si rivolge a un pubblico più ampio e più prossimo per identità e provenienza.
Tracciare confini tra dentro e fuori, tra funzione e senso rischia in alcuni casi di portare a una riduzione delle possibilità comunicative e di incontro aperto con l’altro nel momento della rappresentazione, determinando per lo spettatore un unico spazio di posizionamento — quello della condivisione, del consenso e del supporto — rispetto a ciò a cui sta prendendo parte. Resta però fondamentale l’esistenza di luoghi, anche radicali, in cui rivendicare un certo posizionamento politico, in cui dare spazio a una ricerca artistica che contesti il timore della diversità e del non-normativo. Un posizionamento che non può che mettere in allerta le attuali tendenze politiche in Italia, tanto da spingere la commissione prosa del FNSV a operare una drastica riduzione del punteggio ministeriale di Santarcangelo dei Teatri, chiara manifestazione di un’inconciliabilità tra la proposta del festival e l’orientamento delle politiche culturali messe in atto dal governo attuale. L’esistenza di Santarcangelo, come delle molte realtà che compongono il variegato sistema teatrale italiano, necessita di essere tutelata proprio in quanto esito di un’espressione artistica plurale, riflesso di un’espressione democratica libera e molteplice.
Alice Strazzi
in copertina: foto di Pietro Bertora
di Alessandro Sciarroni
con Raissa Avilés, Alessandro Bandini, Margherita D’Adamo, Nicola Fadda, Diego Finazzi, Lucia Limonta, Annapaola Trevenzuoli
casting, direzione musicale, training vocale Aurora Bauzà, Pere Jou
collaboratore training vocale Oussama Mhanna
casting, consulenza drammaturgica, training fisico Elena Giannotti
styling Ettore Lombardi
disegno luci, cura tecnica Valeria Foti
suono Francesco Rofi Pallone
cura, consiglio, sviluppo Lisa Gilardino
amministrazione, produzione esecutiva Chiara Fava
casting, relazioni stampa, comunicazione Pierpaolo Ferlaino
social media Giulia Traversi
produzione Corpoceleste_C.C.00#, Marche Teatro
coproduzione Progetto RING (Festival Aperto – Fondazione I Teatri Reggio Emilia, Bolzano Danza – Fondazione Haydn, FOG Triennale Milano Performing Arts, Torinodanza Festival, Teatro Stabile di Torino – Teatro Nazionale), CENTQUATRE – PARIS, Festival D’Automne à Paris, Snaporazverein, Maison de la Musique de Nanterre
in collaborazione con Centro per la Scena Contemporanea di Bassano del Grappa
col supporto di Dance Reflections by Van Cleef & Arpels
MALIGN JUNCTION (GOODBYE, BERLIN)
coreografia Alex Baczyński-Jenkins
ideazione originale in collaborazione con e interpretata da Aaron Ratajczyk, Elvan Tekin, Samuel F. Pereira, Shade Théret, Mickey Mahar
attuale versione in collaborazione con e interpretata da Aaron Ratajczyk, Samuel F. Pereira, Mickey Mahar, Aaa Biczysko, Taos Bertrand
suono dal vivo Krzysztof Bagiński
contributi sonori Jasia Rabiej
luci Jacqueline Sobiszewski
scenografia Société Vide
styling Christian Stemmler
assistente styling Sebastián Ascencio
ricerca drammaturgica Sebastjan Brank, Andrea Rodrigo, Carlos Manuel Oliveira
supporto coreografico Thibault Lac
direzione studio Andrea Rodrigo
coordinamento studio Laura Cecilia Nicolás
produzione Darcey Bennett
tour manager Anna Posch
grazie a Nora-Swantje Almes, Jad Salfiti, Kasia Wlaszczyk, Cathal Sheerin, Jeremy Wade, Hugo Hectus, Melanie Jame Wolf, Matthias Moore, Eugene Yui Nam Cheung
produzione ABJ Studio
coprodotta da Kunstenfestivaldesarts, Tanzquartier Wien, Festival d’Automne à Paris, De Singel, Arsenic, PACT Zollverein, Teatro Municipal do Porto, MDT Moderna Dansteatern, Instytut Adama Mickiewicza con il sostegno di Santarcangelo Festival
si ringrazia Radial System
sviluppato all’interno del Gropius Bau Studio Programme
con il supporto di NATIONALES PERFORMANCE NETZ International Guest Performance Fund for Dance finanziato da Federal Government Commissioner for Culture and the Media
CINEMA IMPERO
progetto scritto e diretto da Muna Mussie
con la collaborazione del filmmaker / editing video Luca Mattei, dell’ant(i)ropologo africanista Simao Amista, della curatrice d’arte contemporanea Martina Angelotti, del musicista Matteo Nobile, del sound designer SimonLuca Laitempergher e della traduttrice Susan Zuckerman
grazie a Filmon Yemane per la condivisione della tecnologia di intelligenza artificiale dedicata a persone cieche e ipovedenti
sostenuto da Passage Festival, IIC Strasburgo
coprodotto da Museo delle Civiltà di Roma
progetto sostenuto da blOOm network per creazioni one-on-one sviluppato da Fondazione Armunia, Primavera dei Teatri, Santarcangelo Festival, Sardegna Teatro, Triennale Milano Teatro
all’interno di LANDING, progetto sostenuto dal Ministero degli Affari Esteri e della Cooperazione Internazionale realizzato da Santarcangelo Festival
si ringrazia l’area Export di ATER Fondazione per il prezioso supporto
QUI A PEUR
ideazione, direzione artistica Davide-Christelle Sanvee
con Steven Schoch, Davide-Christelle Sanvee
assistente alla direzione artistica Dîlan Kîliç
sculture Florian Bach
suono Baptiste Le Chapelain
luci, direzione di scena Luis Henkes in alternanza con Florian Bach
responsabile video Dîlan Kîliç
costume Marie Schaller
montaggio video Raphaël Piguet
produzione sculture Cedric Bach – CEN.Construction
amministrazione Ars Longa
coproduzione Le Grütli centre de production et de diffusion des Arts Vivants, L’Arsenic – Lausanne
con il supporto di Fondation Ernst Göhner, Fondation pour les interprètes suisses (SIS), Loterie Romande
progetto realizzato con il supporto di Fondazione svizzera per la cultura Pro Helvetia
coreografia, drammaturgia, interpretazione, ideazione Eli Mathieu-Bustos
coordinamento tecnico Christophe Deprez
suono Loucka Fiagan
produzione esecutiva Anaku
sguardi esterni Daniel Blanga Gubbay, Eric Cyuzuzo Niyibizi, Maria Dogahe, Nabil Ennasouh, Jazz Guyot, Aleksandra Janeva Imfeld, Brandon Kano Butare, Luka Katangila, Krystel Khoury, AnaKuch, Soto Labor, Sophie Sénécaut, Liza Siche-Jouan, Milø Slayers, Marie Umuhoza
partner e sostegni DeSingel (Anversa), La Balsamine (Bruxelles), Kaaitheater (Bruxelles), WIPCOOP / MESTIZOARTSPLATFORM (Belgio), Be My Guest network: La Bellone (Bruxelles), Kaaitheater (Bruxelles), Kunstencentrum BUDA (Kortrijk), Belluard Bollwerk (Friburgo),Théâtre Saint-Gervais (Ginevra), Materiais Diversos (Lisbona), MDT – (Stoccolma), Artsadmin (Londra) Parallèle (Marsiglia), ICI-CCN (Montpellier), Théâtre de la Bastille (Parigi), Short Theatre (Roma), Tanzquartier (Vienna)
progetto realizzato con il supporto di Department of Culture, Youth and Media – Government of Flanders, Wallonie-Bruxelles international + Wallonie-Bruxelles Théâtre Danse
all’interno del progetto europeo R.O.M Residencies On the Move cofinanziato dall’Unione Europea