Nell’intima versione dei Persiani portata in scena dai Sacchi di Sabbia, del dramma eschileo viene posta al centro l’intenzione del tragediografo: «stasera vogliamo farvi piangere». Così Silvio Castiglioni, voce narrante prestata di volta in volta ai diversi personaggi, ci introduce nell’opera.
Un fondale scuro, due tavoli e dietro di essi il nostro “Virgilio”, vestito di nero. La sua voce è come il soffio vitale che anima, mentre le mani donano il movimento a semplici parallelepipedi, secondo una lenta, ipnotica coreografia. Il primo a fare il suo ingresso è il coro dei notabili persiani. Sono solidi bianchi dalle linee semplici, che culminano in punte oblique. Nel verso iniziale del loro canto è già presente il seme dell’angoscia, un cattivo presagio a cui Castiglioni ci richiede di prestare attenzione: il termine che designa l’armata persiana partita per la Grecia, hoi oichoménoi, “coloro che se ne sono andati”, può anche indicare chi non tornerà mai più. A rendere ancora più lugubre l’atmosfera viene introdotta sulla scena la regina Atossa. Anch’essa è rappresentata da un semplice oggetto, ma la stoffa dorata che lo riveste invita a immaginare la sovrana elegantemente vestita e adornata. Il suo sogno riguardante due donne, la docile Persia e l’indomita Grecia, aggiogate al carro di Serse, preannuncia quel che di lì a poco confermerà l’àngelos, il “messaggero”: l’esercito aggressore è stato annientato a Salamina; i Greci, sotto la guida di Atene, hanno fatto strage di uomini e navi. Il racconto avviene come in presa diretta. Castiglioni infatti traccia fisicamente un contatto introducendo sul tavolo che ospita il palazzo di Susa un’ulteriore pedina, quella del corriere, e distendendo con le dita il filo che la collega al campo di battaglia. Questo espediente, che ha tutta l’efficace semplicità dei giochi infantili, ne attiva un secondo, che invece è quasi cinematografico.
Come attraverso un effetto di dissolvenza, le luci si spostano sul piano di un tavolo più piccolo e lì, mentre tramite i versi assegnati al messaggero si ripercorre lo svolgersi dello scontro, vengono disposte e mosse le due flotte avversarie, parallelepipedi rivestiti di stoffa azzurra. La ferocia dell’attacco è nel rosso sottostante al tessuto blu strappato: sono le navi e i soldati persiani sconquassati, squarciati dall’attacco greco. Giunge poi il momento di chiedere consiglio all’ombra di Dario, il padre di Serse. Sui canti rituali intonati per invocarla ci si sintonizza tramite una radiolina. Il fantasma si manifesta sotto forma del volto di Castiglioni: esso emerge dal buio dietro un sottile velo bianco illuminato, che ne sfuma i connotati. I Sacchi di Sabbia immaginano un sovrano tronfio e sprezzante verso quel figlio che si è lasciato travolgere dalla hybris. Anche Serse si presenta diverso da quello eschileo. Il re appare qui non tutto concentrato sulla propria umiliazione, ma affranto e partecipe del lutto del popolo. A incarnare il personaggio è stavolta un pezzetto di legno, dalle linee più morbide rispetto a quelle squadrate delle altre figure. Porta però le stesse vesti azzurre lacere dei suoi soldati. Nel canto di uscita del coro, Eschilo rivela chiaramente le proprie intenzioni: chiamare gli Ateniesi, che quella guerra l’hanno combattuta o che per essa hanno perso i propri cari, a piangere i Persiani caduti. I Sacchi di Sabbia immaginano allora di ferirci con lo scintillio delle armature dei comandanti morti in battaglia. Basta una striscia argentea posta sulle figure squadrate che li evocano e che rappresentano anche i loro simulacri. Questi vengono disposti sulla scena, via via che il coro ne pronuncia i nomi, in un canto rituale di cui anche la parodo, sebbene sotto l’apparenza della celebrazione della forza militare persiana, si rivela finalmente come l’anticipazione. Di fronte a essi Castiglioni e i giovanissimi allievi del corso di teatro per adolescenti tenuto da Elena d’Anna al Lavoratorio pongono tanti piccoli lumini a led.
Ciò a cui Eschilo, inscenando una vera e propria cerimonia funebre, invita i propri concittadini è un esercizio di empatia e lo stesso fanno i Sacchi, con grazia e intelligenza. Il contesto storico con cui l’opera del tragediografo greco del V secolo a.C. dialoga è comprensibilmente conosciuto ai più solo nelle linee essenziali. La compagnia allora accosta alla recitazione dei versi di Eschilo un apparato di note orali, brevi e immediate, che aiutano il pubblico a soffermarsi dove necessario. Per non appesantire eccessivamente il testo tanto bello quanto difficile, i Sacchi lo esaminano, lo distendono come un tessuto, per trovarne tra le pieghe quel che più può parlare a noi contemporanei. Si tratta di un dispositivo che si interroga profondamente su come il proprio stare sul palco si riverberi sul pubblico, e nel portarlo avanti con i testi del teatro antico la compagnia ha alle spalle un lavoro pluriennale. Il loro approccio parodistico, ma arguto e persino filologico – come rivela anche la scelta di affidare la traduzione all’antichista Francesco Morosi, già collaboratore e consulente dei Sacchi di Sabbia per La commedia più antica del mondo. Discorso sugli Acarnesi di Aristofane (2022) e per il Pluto, sempre di Aristofane (2023) – è efficace per un pubblico più avvertito come per uno digiuno dei classici greci. Rendere fruibili per tutti opere che per lontananza temporale, contenutistica e lessicale, rischiano di risultare ostiche, se non addirittura obsolete, è un’operazione complessa e sempre a rischio di banalizzazione. I Sacchi riescono a portarla a termine in modo raffinato, trovando un perfetto equilibrio tra selezione sul testo, aggiunte didascaliche, inserimento di divertentissimi elementi pop e conservazione della complessità dell’opera.
Dall’incontro con Castiglioni, tenutosi dopo lo spettacolo, è inoltre emerso come l’obiettivo del progetto non fosse mettere in luce qualcosa di inedito sui Persiani, un’operazione estremamente ambiziosa, se non impossibile. L’intenzione era piuttosto di avere una lente più nitida sul presente. Allontanarsi, insomma, per avere un punto di vista privilegiato sulla realtà. Non è diverso del resto da quel che Eschilo fa con la propria opera. Se è vero infatti che per l’argomento il tragediografo attinge non più da un lontano passato mitico, ma da un fatto storico di appena otto anni prima, è altrettanto vero che a essere portati in scena non sono i greci, ma il nemico persiano, creando così la distanza necessaria a mostrare ai propri concittadini qualcosa che li riguarda da vicino. Nel 472 a.C. infatti la lega delio-attica esiste già da cinque anni e Atene sta gettando le basi della propria egemonia sulle altre città greche. La hybris di Serse e quel senso di onnipotenza – fin dalla parodo già incrinato – dei Persiani di Eschilo sono anche quelli di Atene. L’allontanamento serve dunque anche a trovare il coraggio di guardarsi. Che il pubblico possa provare un certo fastidio nel vedersi negativamente rappresentato, per di più attraverso il genere tragico, non stupisce. Se si è inclini a ridere anche amaramente di sé stessi – come ben sapeva Aristofane – si è molto più restii a piangere sulle proprie storture, agite più che subite. Di questo i Sacchi di Sabbia sono consapevoli e decidono di mostrarci quella che ritengono la più probabile reazione degli Ateniesi con un sintetico e geniale “vaffanculo”, stampato sul retro di piccoli pannelli utili alla scena, girati al momento opportuno. Che cosa noi contemporanei possiamo riconoscere come familiare in una tragedia del V secolo a.C. non viene fortunatamente dichiarato. Gli specchi, del resto, non hanno bisogno di didascalie.
Serena Chiaramonte
in copertina: foto Leonardo Galanti
I PERSIANI
La tragedia più antica del mondo
con Silvio Castiglioni
spazio scenico, oggetti e regia I Sacchi di Sabbia
traduzione dal greco Francesco Morosi
voce Marina Mulopulos
sound designer Gianmaria Gamberini
la canzone finale è cantata da Simone Bettin
produzione Celesterosa
in co-produzione con I Sacchi di Sabbia
col sostegno di Regione Emilia Romagna, Comune di Cattolica, Regione Toscana, Mic
Questo contenuto è parte dell’osservatorio critico Officina Critica #3