È un dato di fatto, ed è di quelli che attraggono, la vocazione politica di molti giovani artisti italiani. L’afflato e l’impegno che abbiamo visto esondare in più di uno spettacolo recente, per mano di una generazione di autori nati tra gli anni ottanta e i primi anni novanta, risponde evidentemente a un’urgenza. Il bisogno è dire, dire e ancora dire – con drammaturgie di riflesso ipertrofiche e tra scenografie più spesso scarnificate – così che almeno a teatro, almeno qui, possa arrivare la voce dell’opposizione, della militanza, finanche delle (poche ma straordinarie) occupazioni; o ancora, e più semplicemente, la voce di chi continua a credere nello spazio che il teatro, classico e contemporaneo, sa dare all’alternativa. Penso, per esempio, ai più navigati Kepler-452 (Nicola Borghesi classe 1986, Enrico Baraldi 1993), o al quasi esordiente e vulcanico Niccolò Fettarappa Sandri (1996), passando per il teatro di Giovanni Ortoleva (1991). Penso, cioè, a lavori caratterizzati da uno sbilanciamento drammaturgico, grazie al quale l’afflato e l’ideale prendono – deliberatamente – il sopravvento.
Forse anche in ragione di tanto racconto, la prima reazione di fronte a chi risponde alla stessa urgenza con scelte diverse è lo stupore. Succede, per esempio, con Alle armi, in prima assoluta al Teatro Fabbricone di Prato, portato in scena da Hombre Collettivo per la regia di Riccardo Reina (1986): un lavoro in cui l’empatia non scatta in virtù di un riconoscimento (quello in una storia, o in un posizionamento politico, che sentiamo anche nostro), ma di un incanto. E per «incanto», naturalmente, non si intende la sciagurata retorica della bellezza, ma il rapimento di fronte all’equilibrio corale tra attori e strumenti della scena: di fronte al mestiere, in questo caso, del teatro d’oggetti.
La prima via adottata da Alle armi è quella della sottrazione: meno narrazione, meno autocoscienza. Quale scelta migliore, allora, se non emarginare il testo scritto, forzandolo a una corsa troppo veloce su quattro piccoli schermi sospesi? Ad Angela Forti, Agata Garbuio, Aron Tewelde e lo stesso Reina – tutti e quattro sul palco, tutti e quattro di quella stessa generazione sospesa sul 1990 – non resta più nemmeno una parola, ma il difficile compito di una drammaturgia per gli occhi. È attraverso le immagini, infatti, che Alle armi costruisce senso: è tra una fortezza di lego e un elmo giocattolo, tra un soldatino e una spada, che l’assurdità dell’arma prende corpo; che diventa iconografia.
Il debutto di uno spettacolo con questo titolo arriva in un momento difficile: quattordici mesi fa sarebbe stato più immediato, per tutti, sostenere l’ignominia del mercato delle armi o delle responsabilità che l’industria italiana ha al suo interno. Oggi – con i media e lo schieramento politico quasi unanimi nel sostenere l’invio di armi in Ucraina, e così pure parte dell’opinione pubblica – il pacifismo di Hombre Collettivo assume, pur non cercandoli (ed è il bello), i tratti della necessità. È scelta ancora più chirurgica, allora, che il testo scritto abbia un ruolo solo accessorio. I sopratitoli, spesso sdoppiati e simultanei a confondere gli occhi, non sono fatti per restare: sono numeri che appaiono e poi periodicamente ritornano, così che si possa afferrare ogni volta solo un lacerto della disumanità di quelle percentuali (la rendita delle armi in rapporto ai PIL nazionali); di quelle cifre (gli impiegati del settore); di quei fatturati (delle ditte produttrici).
Mentre sullo sfondo il capitale spaccia la disumanità per razionalità necessaria, Hombre Collettivo fa breccia ma con la grazia di un valzer tra gli scaffali. È stato tradotto così – e magnificamente – il titolo di un film tedesco di pochi anni fa (In den Gängen, letteralmente tra le corsie), passato per la Berlinale nel 2018 e in Italia circolato troppo poco, che torna alla mente con insistenza: non solo quando sul palco le mensole traboccanti di giochi sembrano prendere vita da sole e quasi danzare, o quando riconosciamo Sul bel Danubio blu, ma ogni volta che realizziamo quanto Alle armi condivida, con quella piccola perla del cinema recente, la stessa meraviglia ovattata (cui contribuisce il disegno luci di Gianni Staropoli).
C’è spazio, però, anche per una brutalità più sottile, per quanto immaginifica: quella di due torri di lego che si levano nel cielo al profilarsi di due aeroplani (a vent’anni, proprio in questi giorni, dall’invasione degli Stati Uniti e della NATO in Iraq); quella di un rettangolo di sabbia – campo di gioco e campo di battaglia – dove soldatini e carri armati sono appena stati travolti da un’esplosione; quella di un elicottero telecomandato che, dopo quell’esplosione, sorveglia i luoghi dello scempio: il suo motore riesce a sovrastare i rumori del caos in scena, ma non riesce a mangiarsi né l’odore acre dell’esplosione vera, né il fumo denso che ha invaso il palco.
Più facili, ma comunque puntuali, altre scelte: la corsa all’atomica sulle note di Sex Bomb è un’iniezione di buon umore, e pazienza se abbiamo già imparato a non preoccuparci e ad amare la bomba. Kubrick, evidentemente, dice tanto a questo gruppo al lavoro sull’intarsio di immagini e musica: è anche esplicitamente citato, quando su un monitor appare una delle sequenze più celebri di 2001 – Odissea nello spazio, o quando il decollo di un drone è accompagnato da Also sprach Zarathustra. Proprio la musica, infine, è controparte drammaturgica fondamentale (e spesso davvero azzeccata) tanto alla vivacità dei moltissimi oggetti di scena quanto all’energia – alle volte efficacemente controllata, alle volte esplosiva – dei quattro corpi sul palco.
È gioco, dunque, come nel più banale dei suggerimenti del dizionario: to play, zu spielen, jouer, insieme giocare, suonare, recitare. In fondo, e pur forte del suo serissimo sottotesto, Alle armi invoglia chi osserva a svolgere tutte queste azioni: e lo fa non solo e non tanto in ragione degli oggetti di scena, ma anche e soprattutto grazie all’atmosfera sospesa del nostro tempo migliore, quello libero. Proprio pensando all’istinto del gioco, la filosofia tedesca di fine Settecento sembrava aver trovato una mediazione tra sensibilità e intelletto; per un impulso simile, forse, e almeno per qualche notte teatrale di questa primavera, l’alternativa che ogni tanto bussa alla porta del teatro politico – forma o contenuto? – non è sembrata affatto esclusiva. Come l’ombra dell’elicottero che sorvola il luogo del massacro, il contenuto qui c’è ma non invade mai, né consola dando assertività a qualcosa che lo spettatore già sapeva e in fondo voleva sentirsi dire: è solo un tarlo che rimane lì, a mordere coscienze incantate da altro – dalla scena.
Virginia Magnaghi
in copertina: foto di Alvise Crovato
ALLE ARMI
di Hombre Collettivo
regia Riccardo Reina
con Angela Forti, Agata Garbuio, Riccardo Reina, Aron Tewelde
disegno luci Gianni Staropoli
scene, oggetti e costumi Hombre Collettivo
produzione Teatro Metastasio di Prato
in collaborazione con Associazione Culturale Malerba
si ringrazia Leonardo Delfanti per il contributo alla ricerca