Progetto, drammaturgia, regia di Corrado D’Elia
Visto al Teatro Libero di Milano_ 27 giugno-13 luglio 2013

Nessun Ulisse e gli Ulisse possibili. Nessun Ulisse banalmente mimetico dell’eroe omerico appare tra i tavoli di un’atemporale taverna greca, simile a molte, che attende al buio le prime luci di scena di Ulisse. Il ritorno. Viaggio poetico nell’uomo e nell’oggi, spettacolo di Corrado D’Elia, che dà una straordinaria prova di maturità drammaturgica e registica.

Sulle tovaglie di un bianco raggelato ed immoto – che diventano di volta in volta parti di nave, di sala da ballo, del letto di una maliarda Circe – si condensano parole eterne, tali perché vibranti di bellezza, dei tanti, possibili Ulisse che, nell’intensa e a tratti remota voce di Giovanni Franzoni, prendono corpo e portano dentro di sé la radice omerica. Lontana da essere antiquario trofeo di inarrivabile “virtute e canoscenza”, essa è piuttosto vitale occasione per infrangere il passato, recuperarlo, superarlo, ricrearlo. Nell’oggi.

Il racconto dell’épos moderno che, nella scrittura di D’Elia, si è fatto teatro poetico non ha bisogno di aedi. Ulisse stesso non sa più cantare, come mostra con timido imbarazzo alla donna che gli chiede d’intonare un canto per lei.
L’oralità dell’epica fa i conti con la parola scritta che compare, sul fondo nero della scena, con bianchi caratteri grafici da film muto e che scandisce il ritmo della vita e il ritorno di un uomo alla ricerca. Scorrono così undici “Quadri di un’esposizione” che affidano a poche parole l’evocazione di volti, immagini, situazioni, attimi, nostalgie e recuperano la poesia in alcuni bellissimi sottotitoli, come “Lo sguardo perduto” della “Scena tre – Calipso”.

Lo spazio scenico, pur sempre uguale a se stesso, muta nella mente del pubblico grazie alla potenza immaginifica delle parole – alcune in greco, cariche di musicalità – e dei tre attori che interpretano ciascuno più ruoli, come nel teatro antico a partire da Sofocle. Così Giovanni Franzoni alterna il volto maestoso e temerario, che ricorda l’Ulisse di Sperlonga, a quello di un anonimo uomo di mare, di un inquieto regista, di un sincero amico, di un figlio che torna in una famiglia che non è più, di un multiforme amante, di uno sposo. Sara Bertelà è l’eterno femminino, al di là di Circe, Nausicaa, Calipso, Penelope, Antíclea, perfetta nei mutamenti di corpo e di voce. Franco Ravera è da un lato, con i suoi tratti da sileno, il dionisiaco che entra nel racconto epico e contribuisce a trasformarlo in teatro, dall’altro è il controcanto sodale del protagonista.

Coralmente gli attori mettono in scena la guerra, che non è quella di Troia causata dalla bella Elena – citata nella versione della “nuova” Elena di Euripide – ma è una guerra più recente, quella dei Balcani, che porta la mente allo struggente capolavoro Lo sguardo di Ulisse di Theo Angelopoulos, al quale D’Elia dedica il suo Ulisse, ricordando, più sottilmente, anche Paesaggio nella nebbia.
In controluce è l’Europa, che in quella guerra ha sentito crudelmente la propria impotente fragilità, causata in gran parte dal poggiare se stessa su presupposti effimeri, perché ostinatamente staccati dalla creatività, dall’arte che sono la principale garanzia di rinascita, rinnovamento, umanità, vita (non è casuale il sottotitolo “la vita” a quella scena 10 che riguarda gli attori e dunque il teatro). E questo, dopo circa vent’anni, sembra ancora lontano da essere compreso.

Quasi a metà dello spettacolo, nella quinta scena, Ulisse e l’amico Mentore condividono i versi di Nazim Hikmet “Il più bello dei nostri mari è quello che non navigammo…”, metafora del senso vitale del non ancora, della tensione che ci spinge a essere nella vita senza l’ossessione di adempiere il Fine, della tensione a cercare l’eternità nella bellezza e non nella promessa di immortalità che, ieri come oggi, l’uomo Ulisse rifiuta per essere padrone del proprio destino e perché sa che da qualche parte c’è Itaca, sa che esiste un futuro che ha radici nel passato.
“Per la stessa ragione del viaggio viaggiare”, potremmo dire con il De Andrè della ventosa Khorakhanè, e dunque non importa che Franzoni, nei panni del regista, si senta dire da Ravera-impresario che lo spettacolo che aveva in mente non si farà. E’ quanto accade alla fine del viaggio, dove ci aspetta anche altro.

“La fine è l’inizio”: questo pensiero, detto con un linguaggio che echeggia quello delle ambigue profezie delfiche, è il sigillo di questa intelligente Odissea. La scena finale è infatti la “ripresa quadro primo”: entrambi i quadri, recita il sottotitolo, “luogo del quasi arrivo”. Nell’atto conclusivo di questa composizione ad anello si ferma il ritorno di Ulisse. Seduti ai due tavoli ai lati della scena, Ulisse e Penelope, inquietudine del mare e fermezza non passiva della casa, si ritrovano. Parlano al microfono per amplificare le loro parole che sono universali e, per questo, da rivolgere anche a chi è più lontano.
Il ritorno di Ulisse è il ritorno di Ulisse a se stesso e a Penelope, ossia all’altra parte di sé, lasciata all’inizio del viaggio e ritrovata al termine quando, grazie al viaggio, è finalmente possibile confondersi in un atto che non può che essere danza e la sua poetica dissolvenza finale.

Raffaella Viccei