Tutte azioni minime, gestualità congelate da attraversamenti icastici del palcoscenico e da interrelazioni calcolatissime, fredde.

Ma c’era un tempo, spiega il regista, in cui la performance era segnata dall’empatia fra agente e osservatore: in epoca pre-tragica – così come in alcuni (non)teatri di oggi, come quelli africani – erano in opera potenze che attraversavano l’azione, che mettevano in relazione diretta, non ragionata né mediata, “attore” e “spettatore”, in un contatto viscerale, animale. Romeo Castellucci racconta di questa condizione pre-teatrale, le cui forze a tutt’oggi percorrono la scena occidentale, anche nelle sue condizioni più fredde: «è il fuoco che alimenta la stranezza del teatro» dichiara.

Ecco, dunque, in uno stesso giorno, entrare in gioco entrambe le polarità dell’azione: dopo l’esplorazione della freddezza, si sperimenta un complicato esperimento sulla “possessione”, sul dispendio di energia e sulla perdita di controllo.

Piera, giovane attrice italiana ma parigina d’adozione, è la prima ad affrontare la prova. Gira su stessa, con più accelerazione di una trottola, con più intermittenza dei dervisci: ruota e ruota, traballa, barcolla, tracolla, cade, riprende. Con le braccia aperte, quasi a indicare un volo centripeto, vortica sul proprio perno spinale. Con tutti gli inciampi, continua a roteare. Con un disequilibrio spiazzante, in affanno spezzato. Fino al crollo definitivo al pavimento. Un suono isola i diversi tentativi degli attori, avvolgendone i corpi in una dimensione altra. E tremano le poltrone in platea. Uno schiaffo: Pablos si colpisce in volto; e ancora, ancora e ancora. Di nuovo, fino a perdere la mira e il peso, il vettore e il passo. C’è chi si sbraccia e caccia l’aria, chi forsenna la voce, chi si percuote di un tremito, chi incalza cadute e chi conficca gli arti nel palcoscenico. Ognuno immagina il proprio limite, lo pone all’apice dell’azione; ma in scena questo lo tradisce e lo raggiunge troppo presto, o più tardi.

La bellezza più impressionante arriva alla fine: nella specialità di ognuno di quei volti stremati, che discende – barcollando, assente da sé – i gradini del palcoscenico, per trovare rifugio in platea. Ora è meglio fermarsi, si placa tutto nella descrizione. E cade anche la penna, si blocca il fluido delle parole, si fissa lo sguardo del testimone.

Occorre prendere una boccata d’aria, di silenzio, di identità. Come accennava Romeo Castellucci in apertura di laboratorio, in relazione alla specificità del teatro: «se si potesse dire, non si farebbe».

Quello che è possibile è stato detto, il resto è stato fatto – resta custodito nell’emozione intima che a volte, partendo dal centro del palco, sa sconvolgere scena e platea, attore e spettatore,