di Stefan Kaegi – Rimini Protokoll
visto alla Biennale di Venezia, Teatro Piccolo Arsenale _ 15 ottobre 2011

Premiati con il Leone d’Argento destinato alle nuove realtà emergenti della Biennale 2011, i Rimini Protokoll hanno presentato, nella serata conclusiva del Festival, uno spettacolo che contrasta fortemente con quelli visti nella rassegna veneziana. Bodenprobe Kasachstan è una forma di teatro-documentario che proprio per questa sua peculiarità si differenzia nello spirito, negli obiettivi, nella forma artistica e forse anche nel tipo di pubblico cui vuole rivolgersi. A firmare la regia Stefan Kaegi, classe 1972, fondatore nel 2000, con Helgard Haug e Daniel Wetzel, del “collettivo” teatrale impegnato tra indagini documentaristiche e nuove tecnologie, racconti di vita e relazione tra teatro e spazio urbano (attenzione, quest’ultima, al centro del laboratorio Video Walking Venice, svolto alla Biennale sotto la guida dello stesso Kaegi).

Bodenprobe Kasachstan è un esempio di quel “reality trend” che caratterizza e guida i progetti della compagnia. A metà tra finzione e realtà, è una forma di teatro che unisce racconti di vita reale, attori “esperti” (definiti tali in quanto non attori, ma protagonisti delle storie che essi stessi raccontano) e approfondite ricerche documentaristiche, il tutto arricchito dall’utilizzo di video e nuove tecnologie. Un docu-spettacolo che parte dalla scelta del soggetto e da un cast di individui in grado di parlarne in termini di storia personale: attorno all’estrazione del petrolio e ai flussi migratori dei “tedeschi etnici”, si costruisce così un dettagliato affresco del Kazakistan di ieri e di oggi, raccontato da cinque protagonisti le cui biografie ripercorrono la storia di diverse generazioni. “Sotto Stalin – racconta Stefan Kaegi – migliaia di persone di etnia tedesca sono deportate in Kazakistan. All’inizio degli anni ‘90, l’invito di Helmut Kohl a un milione di persone di origine tedesca a ritornare in Germania dal Kazakistan coincide con la scoperta di uno dei più grandi giacimenti petroliferi degli ultimi vent’anni nel Kazakistan occidentale…”. La semplicità della messa in scena è arricchita dall’utilizzo del video: gli attori si muovono in paesaggi in movimento, ricordano alcuni momenti della loro infanzia o intervistano interlocutori assenti che rispondono in video, come se il dialogo avvenisse in tempo reale. Sul palco pochi oggetti ed elementi materici costruiscono lo spazio scenico, animato dai racconti dei cinque non-attori tra il folklore di balli e canti tradizionali e elementi di supporto “didattico”, come la mappa geopolitica dell’Europa dell’est al confine con l’Asia, collocata sulla parete alla destra della platea e opportunamente illuminata per consentire al pubblico di meglio seguire il filo narrativo.

Se lo spettacolo si mantiene per tutta la sua durata su un alto livello narrativo e documentaristico, con interessanti trovate dal punto di vista registico, fatica forse a trovare un coinvolgimento del pubblico che vada oltre un livello di interesse puramente intellettualistico. In ogni caso, è un teatro dalla forte componente sociale, dal contenuto importante e in grado di recuperare storie, di rafforzare tradizioni che si vanno perdendo e di denunciare fatti ancora troppo poco noti. Un teatro che, a maggior ragione dopo una settimana di Biennale, non si può che definire necessario.

Francesca Serrazanetti