Compagnia Chiara Frigo
visto al Pim Off di Milano _ 28 novembre 2011
Che cos’è la speranza? E perché dovremmo sperare? Speriamo perché è nella nostra natura di esseri umani, fallibili e soprattutto perfettibili, mille volte capaci di cadere e altrettante mille di rialzarsi. Così ci dice la coreografa Chiara Frigo, veronese, poco più che trentenne, fra le personalità emergenti della giovane danza d’autore italiana contemporanea, formatasi all’estero, fra Parigi Bruxelles e Amsterdam, e poi approdata nelle compagnie Ersilia di Laura Corradi e Naturalis Labor di Luciano Padovani e AltroTeatro di Lucia Latour.
Attrice, danzatrice, video maker, laureata in biologia molecolare, la Frigo è seguita con attenzione dal 2006, da quando, cioè, incuriosì con il suo primo lavoro, il solo Corpo in doppia elica. Qui era il corpo a trasformarsi in un’elica di Dna, a diventare mattone della vita, a evocare la sensazione del nascere e del morire in un continuo alzarsi per poi accartocciarsi, comporsi e ricomporsi. Il connubio danza e scienza prosegue anche nei successivi lavori: Takeya, tema la velocità, come etimologicamente richiama il titolo scelto, e Nonsostare, gioco di parole per indagare il movimento. Nel frattempo l’artista vince, oltre a numerosi premi italiani e internazionali, una residenza a La Caldera di Barcelona e il bando Reform/Dance proprio al Pim off. Così si arriva a questo Suite-Hope, finalista del Premio Prospettiva Danza Teatro 2011 e appena selezionato tra i finalisti 2012 di Aerowaves, network internazionale di danza che offre a giovani artisti l’opportunità di lavorare in varie piazze europee.
Sul palco di via Selvanesco sono in due a indagare la speranza: la Frigo e Marta Ciappina. All’inizio una voce le chiama, le categorizza: se hai fatto questo, ora fai quest’altro, chi non è così, si comporti in quest’altro modo. Sarà l’unica intrusione vocale nel corso dello spettacolo. Da lì si parte, ci si lascia alle spalle ciò che si è stati e si è pronti a ricominciare. Con le danzatrici appaiono in scena, e torneranno nel corso dello spettacolo, alcune sagome umane fatte di cartone colorato, che sembrano vivere di vita propria: cadono, vengono rialzate, sono allineate e poi scomposte. Sono gli incontri, le unioni e gli addii: nella vita niente accade senza separazione. Lo racconta la coreografia, fatta principalmente di pezzi a due, mai perfettamente cooordinati, come a rincorrersi, dove le performer si sfidano con gli occhi e poi si abbandonano ai loro destini, si osservano e si copiano. I movimenti sono aperti, tracciano percorsi e subito li cancellano, non sono mai definitivi, netti. Sono pulsazioni, teste che si scuotono, braccia che chiamano una direzione, gambe che disegnano le lancette di un orologio, il tempo che rincorre il tempo.
Nei soli, uno a testa, emergono le due personalità, davvero distinte, e forse per questo così ben integrate e interessanti, delle danzatrici. Ciappina è un’esecutrice fine, mai sporca, si lascia invadere dal gesto ma subito dopo lo butta fuori, quasi avesse paura di trattenerlo dentro di sé. Frigo, invece, è un animale in gabbia. Lotta contro i movimenti, li graffia, li ripensa appena prima di portarli a compimento, disegna una drammaturgia dentro la coreografia, è potente, ma sempre lieve, della lievità di chi riflette mentre esegue.
Allo stesso tempo, il lavoro della Frigo è un continuo invito a riflettere anche per lo spettatore. Come nella sequenza delle magliette: le danzatrici si avvicinano al bordo del palco e si sfilano una serie di t-shirt che avevano indossato una sopra l’altra. Ciascuna porta la stampa di un’icona dell’umanità: da Lenin a Che Guevara, da Marylin Monroe a Martin Luther King. È il tema della speranza, che, nascosta da qualche parte, c’è per tutti, insieme a quello dell’omologazione, dell’appartenenza. Per trovare la nostra strada, sembra dirci la Frigo, dobbiamo liberarci delle magliette, dobbiamo tornare a sfidare noi stessi e gli altri guardandoci negli occhi, imparando a sentirci soli, e ad amarci così, anche quando siamo persi in mezzo a una folla. Come nella danza immobile delle ballerine di cartone sul finale: teneri abbracci che poi crollano, uno a uno, spinti da un alito di vento. C’è da scommettere che si rialzeranno.
Francesca Gambarini