Il Teatro alla Scala chiude la stagione di balletto 2018/19 con un trittico neoclassico e ‘contemporaneo’: Symphony in C, Petite mort e Boléro. Tre balletti e tre concezioni coreiche molto lontane e diverse tra loro, nel tempo e nello stile. I tre coreografi sono tra i più ispirati e innovativi del Novecento: George Balanchine (Symphony in C), il cui retroterra zarino e dei Ballets Russes di Djagilev è stato completamente rinnovato in direzione geometrica e minimalista dopo il suo arrivo negli Stati Uniti e la fondazione di quello che oggi è il principale repertorio del New York City Ballet; Jiří Kylián (Petite mort) e il suo ardire stilistico capace di cogliere la dinamica della musica ‘classica’ propriamente detta, firmando così a chiare lettere una parte della danza neo-classica; Maurice Béjart con la sua capacità visionaria e il suo occhio ‘antropologico’ allo spettacolo, che sul tavolo rosso di Boléro ha costruito un’icona della danza, punto di maturazione artistica di molti danzatori. Che cosa lega il trittico? Non sembra facile trovare un sottotesto comune ai tre balletti. Balanchine sulle note della Sinfonia in do maggiore di Bizet ha dato forma all’amore. Quattro movimenti, come quattro forme d’amore.

Nicola Del Freo e Martina Arduino in Symphony in C di George Balanchine © The School of American Ballet

L’allegro vivo del primo movimento con Martina Arduino e Nicola Del Freo ha mostrato uno dei momenti più ‘a stelle e strisce’ del balletto, attraverso la freschezza dell’amore appena sbocciato. La coreografia richiama per certi punti musicali e coreici quella di Who Cares? e per i ports de bras anche Rubies. Lo stile di Balanchine si fa vedere nell’uso del bacino come se il tutù spezzasse la linea dell’asse, dando l’impressione di ‘dividere’ la ballerina in due parti: Arduino è una splendida interprete di questo stile, musicale e precisa, degna di una allieva diretta del Maestro e di essere prima ballerina al New York City Ballet. Del Freo ha rimodellato di molto quell’approccio timido che lo aveva caratterizzato nelle scorse stagioni: lo ritroviamo molto più espressivo, soprattutto con la mimica e il volto. La sua solidissima tecnica si evidenzia appieno nel partnering sicuro e nei salti, sempre forti ed brillanti e sempre a tempo e precisi nelle chiusure.

Nicoletta Manni e Marco Agostino nell’adagio del secondo movimento offrono una perfetta lezione di geometria. Lo stile di Balanchine si evidenzia nelle complicate figure del pas de deux, nei fuori asse da tenute quasi ginniche di Manni e nella forza di Agostino, un porteur che non sbaglia un colpo. La geometria è glaciale nella sua precisione e nel suo design. La coppia principale attraverso l’adagio mostra la forma di un amore aristocratico e maturo, con la sensualità e sacralità di un certo sapore orientale, contenuto nell’esternazione dei sentimenti, ma allo stesso tempo solido e stabile.

Alessandra Vassallo e Claudio Coviello in Symphony in C di George Balanchine © The School of American Ballet

Il terzo movimento è un minuetto dai colori vivaci di una tarantella. A interpretare la frizzantezza e l’esuberanza di un amore giovanile sono Claudio Coviello e Alessandra Vassallo, due esponenti del Mezzogiorno che fanno risuonare tutta l’energia mediterranea. Brillanti e allegri i grands jetés ripetuti in manèges incrociati dalla coppia e del giusto impatto tutti gli ingressi e la chiusura. Interessanti e ben eseguite le figure complesse delle coppie soliste. Balanchine con le tre coppie disegna perfettamente il terzo tempo della sinfonia che Bizet intitola Scherzo a trio: le coppie dialogano perfettamente creando una sorta di ‘narrazione’.

Chiude il balletto attraverso una composizione forse un po’ troppo ‘ad anello’ l’allegro vivace del quarto movimento e la sua forma d’amore scoppiettante, in cui la noia non trova posto tra i virtuosismi di María Celeste Losa e Mattia Semperboni. Un breve tempo cui si lega immediata la coda del balletto e il rientro sulla scena di tutte le coppie principali, di tutti i solisti e di tutte le danzatrici che hanno fatto da corpo di ballo nei diversi tempi. Il cromatismo insistito con cui si rappresenta la relazione amorosa – bianco nelle donne e nero negli uomini – è forse per George Balanchine un’eco materna della Russia ortodossa, i cui matrimoni presentano tradizionalmente la medesime forte opposizione cromatica negli sposi.

Stefania Ballone e Daniele Lucchetti (prima coppia) in Petite mort

L’intimità dell’amore è il sottotesto della creazione di Jiří Kylián. Petite mort in francese significa ‘morticina’, ma descrive con un eufemismo l’abbandono dei sensi di fronte al piacere, come suggerito dai costumi che ora richiamano l’abbigliamento intimo color carne, ora raffigurano la nudità. Cinque coppie interpretano la tecnica classica con la morbidezza e la fluidità del contemporaneo, dando vita a pezzi di grande lirismo sulle note sensuali degli adagi per pianoforte e orchestra di Mozart, dal grande potere evocativo.

Tra queste spicca la quarta coppia, formata da Martina Arduino e Christian Fagetti, puliti e precisi, fluidi nel contatto di sguardi e delle mani, dalle linee muscolarmente definite e un sentire molto convincente. Ma anche la coppia centrale, la quarta, di Mick Zeni e Nicoletta Manni: il passo a due crea, infatti, figure complesse che necessitano la solidità e la sicurezza della tecnica coreica e del passo a due, nonché l’esperienza del palcoscenico e una capacità forte di immedesimazione. Tutta Petite mort è stata un pezzo di grande valore nel trittico.

Nicoletta Manni e Mick Zeni (quarta coppia) in Petite mort

La visionarietà di Maurice Béjart porta sull’iconico e famoso tavolo rosso l’aspetto criminale dell’amore: la drammaturgia originale di Bronislava Nižinska vuole una gitana sul tavolo che richiama, seduce, invoglia i frequentatori (magari alticci e ubriachi) di una taverna  andalusa fino al punto in cui tutti rispondono al richiamo salendo “animalescamente” sul tavolo. Eppure, Béjart trasfigura l’aspetto esclusivamente sessuale, perché non gli importa se sul tavolo salga una donna o un uomo, né se attorno ci siano uomini o donne, perché tutto è trasfigurato: sul tavolo sale tutto ciò che è desiderio, aspirazione, frustrazione, invidia, tutto ciò che si vuole essere od ottenere ma che al momento non si ha, né si è. Nello tsunami finale di mani che travolgono il tavolo e il suo protagonista risiede l’uccisione di sé stessi a causa della propria ambizione.

Sul tavolo rosso è salito di recente anche Roberto Bolle. Carriera stellare e bellezza invidiata e desiderata, certo perfetto per il Boléro. Eppure, nonostante tutto, Bolle rimane molto estetico ed estetizzante: le mani così importanti per Béjart fanno dei gesti che restano figure, il costume espressamente disegnato non esalta il bacino, né i suoi movimenti, che nel battere della musica dovrebbero trasmettere la sensualità simbolica e fisica del richiamo. Bolle difficilmente si scosta dall’immagine ‘contemplativa’ della bellezza pura, anche là dove è richiesto un carattere seducente e tentatore.

Roberto Bolle e il corpo di ballo nel Boléro

E se i solisti Massimo Garon, Gabriele Corrado, Mattia Semperboni e Gioacchino Starace risultano sensuali e a tratti intriganti, non mancano anch’essi, in accordo col protagonista, di un certo estetismo. Forse, attorno al tavolo, sarebbe stato meglio trovare un corpo di ballo che restituisse in tutta la sua ambiguità quell’uso della mano mentre accarezza la tentazione e allo stesso tempo la frena. Il simbolo più vistoso di una lotta interiore, che separa lecito e illecito, desiderio e sensualità, amore e violenza.

Domenico Giuseppe Muscianisi


Foto di Marco Brescia e Rudy Amisano © Teatro alla Scala.