Dopo quasi quarant’anni di visioni innovative e contaminazioni artistiche internazionali, MILANoLTRE apre un nuovo capitolo dedicato al contemporaneo, segnato dal passaggio di testimone da Rino De Pace, fondatore e figura storica del festival, a Lorenzo Conti, curatore attivo nella scena della danza e già co-direttore artistico, che guiderà la direzione per il triennio 2025–2027 con il progetto “Bodies-in-Between”: uno spazio fertile di movimento e relazione. Non è una coincidenza che la 38ª edizione, su intuizione di Conti, intrecci per la prima volta un dialogo tra danza e moda, prendendo il via proprio il 23 settembre, in concomitanza con la Milano Fashion Week e in collaborazione con Camera Nazionale della Moda Italiana.

È con Antonio Marras, stilista e creativo poliedrico, che si inaugura il programma 2025, con l’installazione scultorea: Manus Manus”, presentata in anteprima e parte di una serie più ampia destinata a una grande installazione che debutterà prossimamente a Londra. Allestita nella Sala Atelier, sottopalco del Teatro Elfo Puccini, l’opera è stata visitabile dal 23 settembre al 7 ottobre 2025, trasformando lo spazio in un luogo di attraversamento di linguaggi. L’opening del 26 settembre con una performance di e con Biagio Caravano, affiancato da Rossana Martire e Alvise Gioli, giovani performer della Scuola Civica Paolo Grassi di Milano, è proseguito con un dialogo tra Francesca Alfano Miglietti, Marras, Conti e De Pace, in un incontro di riflessione e racconto sulla relazione tra gesto artistico e materia. Il vernissage del 7 ottobre ha segnato la conclusione del progetto con una performance di Andrea Peña.

A pochi metri dalla Sala Atelier, La folla che non sa” (opera permanente di Marras, già presente all’Elfo da diversi anni) si stagliava davanti al passaggio del pubblico come un richiamo silenzioso alla sua pratica artistica. Si tratta di un murale realizzato con pagine strappate di giornali, su cui sono disegnati corpi, volti e mani deformi: bozzetti sartoriali che evocano frammenti di memoria e manualità, in dialogo con la nuova opera Manus Manus.

A soli diciannove giorni dalla scomparsa di Giorgio Armani, figura portante del made in Italy e dell’eleganza milanese, che ha fatto della creazione un atto di devozione passionale e mentale, Marras —profondamente legato alla sua terra, la Sardegna, dove vive e lavora nella sua casa-studio ad Alghero— trasforma il suo fare moda in un’azione viscerale, istintiva e sentimentale. Reduce dalla presentazione alla MFW della collezione Primavera/Estate 2026 sceglie di far sfilare in passerella il pastore Giuseppe Ignazio Loi, simbolo di militanza e di profondo legame con la tradizione – propone un riuscito tentativo di invadere le arti e di tessere nuove relazioni sociali e poetiche. Lo stilista stesso definisce il suo lavoro «un pretesto per intrecciarsi poeticamente con altre discipline: arti visive, musica, danza, teatro e cinema».

Foto di Giacomo De Luca

Visitando “Manus”, la percezione visiva si accompagna a una suggestione olfattiva, intrisa di una vena malinconica: alla mia sinistra una signora si avvicina con curiosità all’opera, sfiora le corde sospese, respirandone l’odore. Voltandosi, mi confessa un ricordo d’infanzia legato alla paglia, alla terra e al contatto perduto con la natura. Al centro dello spazio, sospese nella loro verticalità, quattro sculture in argilla lucida richiamano parti di corpi: a prima vista sembrano fasci muscolari lacerati, che pendono dall’alto. Osservandole nella loro tridimensionalità, si distingue la forma di un braccio trattenuto in alto da catene e cavi metallici. Le estremità, rivolte verso il basso, appaiono come un groviglio di mani (Manus) e dita da cui pendono lembi di juta sfilacciata, innesti e filamenti che si diramano, appoggiandosi al suolo come sottili radici, evocando vene organiche o strascichi di veste. Si percepisce una tensione pittorica che richiama corpi deformi, carne viva e vulnerabile, sospesa tra deformazione e dissoluzione, come nei lavori di Francis Bacon, in particolare nel trittico Three Studies for Figures at the Base of a Crucifixion” (1944), che restituisce la cupa fragilità della condizione umana.

A completare la composizione, tre lavagne nere a quadrettoni: due disposte lateralmente e una sul fondale, con gessetti appesi agli angoli inferiori, come a invitare all’uso, non solo come elementi installativi, ma anche partecipativi. A prima vista dissonanti, le lavagne trovano tuttavia il loro senso materico nel percorso dell’artista, coesistendo con l’opera in ceramica. Se le lavagne richiamano la sua formazione da geometra —in cui è presente la ricerca dell’errore, la dedizione al lavoro e l’assenza di ciò che è stato scritto a mano, divenuto tabula rasa— si intravede l’alone di precedenti scritte, lasciando all’osservazione l’apertura a un immaginario personale.

Il filo, elemento centrale del lavoro sartoriale, per Marras diventa sutura e gesto che ricompone ciò che appare separato. L’opera è autonoma, ma anche un’estensione che assume una dimensione relazionale. L’artista confessa quanto i filamenti di corde ricordino l’approdo dei pescherecci al porto, come gesto teso verso l’altro, e quanto esprimano al contempo la sua impotenza di fronte alla tragedia della guerra, trasformandosi in mezzo espressivo. Questo lavoro afferma in Marras il legame di sangue con le sue origini, esaltandone un chiaro segno di protezione, ispirazione e appartenenza carnale: un radicamento arcaico e lontano, evidente nei materiali poveri che si rigenerano e negli “stracci” — come lui stesso definisce i suoi vestiti.

In linea con il titolo dell’edizione del festival, il concetto di “tra” apre uno spazio di congiunzione: per Marras, il gesto di abbracciare e avvicinarsi all’altro diventa incontro tra mondi diversi — ceramiche, tessuti, corpi in movimento e ambienti accoglienti. 

Foto di Daniele Notaro

Il 26 settembre, giorno dell’opening, l’opera viene abitata dal coreografo Biagio Caravano —musicista, danzatore, performer e co-fondatore del collettivo MK diretto da Michele Di Stefano— e da due giovani performer della Scuola Civica Paolo Grassi. Caravano crea un ambiente immersivo, con luci calde e soffuse e un fumo che avvolge l’intero sottopalco, alternando momenti di buio e azioni contemplative, che diventano poi andanti e pulsanti nel movimento. Al centro, una giovane performer seduta al suolo osserva verso l’alto l’interprete in piedi. Entrambi restano immobili sotto le sculture, immersi in uno sguardo reciproco e silenzioso, come se abitassero da tempo l’installazione. La presenza diventa una militanza del corpo, in cui i gesti di avvicinamento e allontanamento accentuano il dialogo continuo tra corpi e opere. Caravano, dinamico e quasi a occhi chiusi, si abbandona a movimenti istintivi e sincopati, liberando le braccia e molleggiando gli arti superiori; poi si chiude in se stesso e osserva le opere. A proposito dei gesti delle braccia, racconta: «per me rimandano a un’idea sociale dei corpi: punti periferici che mi spingono verso l’esterno, l’altro», favorendo la spazialità, gli incontri e gli scontri. Il trio si muove insieme tra torsioni, scatti improvvisi e movimenti liquidi, imbrigliandosi, sciogliendosi e riattaccandosi su più livelli. L’azione integra l’opera nello spazio, conferendo una dimensione viscerale, dove luci, fumo, ombre e suono rivelano una densa “temperatura” tra corpi e ambiente.

Foto di Vito Lorusso

L’installazione di Marras si è conclusa il 7 ottobre, lasciando al pubblico il tempo di osservare e riflettere sulle forme, tra materia e corpo in movimento, e sulle connessioni tra pubblico e spazio. È stata animata dall’azione performativa di Andrea Peña, coreografa con base a Montréal e autrice emergente nella scena internazionale.

In contrappunto, la performance lascia l’installazione così com’è, a luce fredda, con una musica epicamente narrativa, ed enfatizza un’intesa corporale con le sculture attraverso una fugace interazione tattile. Peña scivola, si radica e ripete figure e sequenze flessibili, intrecciando braccia e gambe in pose che richiamano le forme sospese, creando nel movimento un ritmo ciclico.

Foto di Vito Lorusso

Tre linguaggi riconoscibili –quelli di Antonio Marras, Biagio Caravano e Andrea Peña– si intrecciano, generando un’esperienza site-specific per entrambi i lavori, in cui il corpo diventa estensione dello spazio e delle opere. In questo senso, l’installazione scultorea di Marras funge da opera ambivalente: Caravano ne accentua il movimento e la densità sensoriale, mentre Peña ne conserva l’autonomia, permettendo alla forma, ai materiali e allo spazio di esprimersi attraverso un’interazione solitaria. 

L’opera emerge come nodo di possibilità interpretative, confermando la volontà del designer di tessere un filo tra corpo, materia e osservazione: un transitare a braccia aperte “tra” stili e dimensioni dissonanti.

Giacomo De Luca

in copertina foto di Vito Lorusso


Questo contenuto è esito dell’osservatorio critico dedicato a MILANoLTREview 2025