Nel foyer del Teatro Elfo Puccini c’è un’aria sospesa, elettrica. Per tre giorni, durante MILANoLTRE Festival, la danza incontra la moda in un esperimento che ha qualcosa del rito e qualcosa del gioco. Dans(e) l’Atelier nasce dalla collaborazione tra MILANoLTRE Festival e Camera Nazionale della Moda Italiana e invita coreografe e fashion designer a condividere uno spazio di ricerca intensiva in cui corpi, tessuti, suono e luce diventano materia comune.
Il principio è semplice (e imprescrutabile): a guidare il percorso è il caso. Due ampolle, posate nel foyer, contengono bigliettini piegati. Nella prima ci sono i possibili temi; nella seconda gli spazi, le sale del teatro in cui le creazioni prenderanno forma e saranno poi condivise con il pubblico. Quando una mano estrae il biglietto con la scritta “The invented hagiography of a Saint” (L’agiografia inventata di un santo o di una santa), l’asse di lavoro si sposta subito sul terreno del sacro: il corpo come icona, il culto, il miracolo, la reinvenzione del santo e dei suoi seguaci.
L’edizione 2025 coinvolge tre coppie artistiche:
Alexandra Bachzetsis & Lorenzo Seghezzi
Andrea Peña & Alessandro Vigilante
Masako Matsushita & Tiziano Guardini
affiancati dalle performer e sound designer del collettivo Cult of Magic (Francesco Sacco, Luca Pasquino, Samira Cogliandro, Giada Vailati), che per l’occasione accoglerà anche Roberta Racis.
Per tre giorni, dal 9 all’11 ottobre, le sale dell’Elfo ospitano dunque le tre microresidenze in cui ogni gruppo cerca la propria “agiografia inventata”. Il lavoro culmina domenica 12 ottobre in un percorso itinerante per il pubblico: tre performance da quindici minuti ciascuna, in tre sale diverse, con piccoli gruppi che attraversano questo paesaggio di santi contemporanei.
Quello che segue è il diario di queste giornate, restituito dagli sguardi dei membri della nostra redazione che hanno potuto seguire da vicino tutte le fasi creative del lavoro.
DIARIO 1
Alexandra Bachzetsis & Lorenzo Seghezzi
con Roberta Racis (Cult of Magic)
a cura di Azzurra Cerciello
Giorno 1 – Il principio
Nel foyer del Puccini, un pullulare di menti della moda, della danza e della musica è pronto a contaminarsi. Per tre giorni si lavorerà insieme, senza sapere ancora bene come. A orientare il percorso, più che un’idea predefinita, è il caso: le due ampolle con i bigliettini, i temi possibili, gli spazi del teatro che potrebbero diventare palcoscenici o camere di prova. La curiosità è quasi tangibile.
Per Alexandra Bachzetsis, performer e coreografa svizzera, e per Lorenzo Seghezzi, stilista e artigiano della corsetteria, il punto di partenza è il tema appena estratto. Insieme a Roberta Racis, danzatrice di Cult of Magic, cominciano a farsi domande: “Chi sono i santi di oggi e chi ha fede in loro?”, “Esiste un culto del corpo?”, “Che implicazioni ha, in termini di identità e potere, essere santi o seguaci?”. La conversazione si dirama in molte direzioni, ma a un certo punto sono i vestiti di Seghezzi a prendere il sopravvento. Dalla valigia e dalle borse emergono corsetti di diverse forme e colori, piume, gonne: non semplici abiti, ma simboli di libertà, strumenti per decostruire le norme sociali spesso binarie, come quelle legate al genere. Il santo, qui, non è un’icona distante, ma un corpo che si veste e si sveste, che si ridisegna a partire da ciò che indossa.
Giorno 2 – L’immagine come culto
In sala, una donna su una piattaforma: pleaser shoes, mutande nere, corsetto. Canta Je suis malade di Lara Fabian guardando dentro una telecamera. La sua immagine si moltiplica: è sul palco, è proiettata su uno schermo alle sue spalle, è replicata più volte all’interno della proiezione. Quella donna è Roberta Racis, che però intona quel brano struggente con un’attitudine sorprendentemente felice, quasi spensierata. Sembra interessarsi solo a curare al meglio la propria immagine, senza mai rivolgere un vero sguardo a chi è lì dal vivo. Il fuoco dell’attenzione è tutto nell’occhio della camera. Accanto a lei c’è Lorenzo Seghezzi, che con maestria e precisione la veste e la sveste, le pettina i capelli, modifica i dettagli. È una figura al tempo stesso marginale e centrale: un artigiano che, con gesti quotidiani, partecipa alla costruzione di quell’immagine femminile misteriosa. Una presenza quasi alienata e alienante, che lavora incessantemente sull’icona. La domanda affiora inevitabile: sarà l’immagine stessa la santa dei fedeli contemporanei? Qui la devozione sembra spostarsi dallo spirito al frame video, dal miracolo al filtro, dalla reliquia al dettaglio sartoriale che perfeziona la figura.
Giorno 3 – To perform Realness
Nella sala Fassbinder si respirano gli ultimi aggiustamenti. Mentre si rifiniscono dettagli e si attraversano le ultime prove, un’energia invade la stanza. In questa sinergia tra moda, danza, performance, videomaking e musica resta da compiere un ultimo passaggio: immergere anche chi sta dietro la macchina – e non solo la performer – nell’universo stilistico di Seghezzi. Alexandra Bachzetsis, Stefania Filace (dietro la videocamera) e lo stesso Lorenzo navigano tra corsetti, pantaloni, gonne. La metamorfosi è silenziosa ma evidente: ognuno di loro trova il proprio modo di abitare quei capi. Ne emerge un mondo in cui ogni individuo è unico, ma rimanda, attraverso ciò che indossa, a una stessa bolla semantica. Ogni elemento è curato nei minimi dettagli: musica, assetto coreografico, vestiti, luci. Nulla è ornamentale, ogni cosa ha un motivo preciso per essere. Non ci sono personaggi nel senso teatrale tradizionale, ma esseri umani la cui principale necessità è, nelle parole di Bachzetsis, “to perform Realness”: performare la realtà, non una sua copia idealizzata. In questa agiografia inventata, la santità non è un’aura lontana, ma la possibilità di incarnare la propria immagine fino in fondo, senza mediazioni rassicuranti.
DIARIO 2
Masako Matsushita & Tiziano Guardini
con Giada Vailati (Cult of Magic)
a cura di Arianna Bonazzi e Marinella Protopapa
Giorno 2 – Santa Giada, protettrice dei silenzi (testo di Arianna Bonazzi)
Per Masako Matsushita e Tiziano Guardini, affiancati dalla danzatrice Giada Vailati, il secondo giorno di lavoro ha il sapore di qualcosa che sta per emergere ma non ha ancora una forma compiuta. In sala si muovono figure diverse: il fonico, i tecnici, Masako, Tiziano, Giada, il videomaker. Tutti partecipano a una coreografia non scritta. Il caos è produttivo: telefoni che squillano per cercare tessuti, materiali che cambiano di posto, luci che si accendono e si spengono. Masako osserva, interviene, suggerisce. La sua attenzione è sempre rivolta a Giada e al modo in cui il suo corpo abita lo spazio. Non le dice tanto cosa fare, quanto perché farlo, come sentirsi. Quando Giada inizia a improvvisare, il corpo sembra scrivere da solo la propria storia. Nasce così Santa Giada, protettrice dei silenzi. L’idea emerge quasi per gioco: Masako dà istruzioni attraverso il microfono, con una voce sussurrata, intima, quasi ASMR. In quel tono c’è la sintesi di tutto il lavoro: una sacralità fatta di concentrazione, di ascolto ravvicinato. Il sintetizzatore e il theremin entrano come voci parallele, con frequenze che spiazzano e costringono a cercare un nuovo equilibrio. Tiziano trasforma l’abito in corazza, e tra una prova e l’altra si affanna al telefono: cerca i tessuti specifici che ha in mente per il suo “mantello santo”. Alla fine del giorno, sul pavimento restano schizzi, appunti, frammenti di armature. Tutto sembra ancora sospeso, ma in questa sospensione c’è già la forma di un miracolo: un lavoro che si costruisce nel presente, attraverso la pura creatività degli attori in gioco.
Giorno 3 – Mappa dei miracoli (testo di Marinella Protopapa)
L’11 ottobre tocca a me entrare nella camera segreta dove Masako Matsushita, Tiziano Guardini e Giada Vailati stanno scrivendo la loro mappa coreografica dei miracoli. In quello spazio si respira l’atto di spazializzare: aprire il movimento all’aria, alla luce, al suono. L’interazione tra i tre artisti è un tessuto sottilissimo, un’onda sensibile: una santificazione condivisibile. Per diverse ore assisto alla creazione di un ritmo nuovo, diverso da ciò che conosco della danza. Il battito prende vita dalle parole di Giada, dalla voce di Masako, e si amplifica nel sound design, che ne traduce il respiro in una vibrazione percepibile come un sussurro, per chi si dispone ad ascoltare. Quel respiro è di Giada, che nella sua ricerca del movimento segue le traiettorie della luce come se rispondesse a un richiamo. Ogni gesto sembra un passo verso il miracolo, verso una rivelazione che non è mai del tutto esplicita e proprio per questo insiste, chiama. Non posso fare a meno di disegnare, sul mio taccuino, il momento della vestizione: mi attira quel corpetto metallico – dal suono freddo e vivo – e il vestito bianco latte, intagliato nella gonna, che stringe la vita di Giada come un segno augurale di rinascita. In quell’istante, in cui tutto è intrecciato – suono, voce, corpo, movimento – la materia visibile si fa simbolo e diventa luogo di reincarnazione. Poi arriva la sorpresa dall’alto: si prepara il grande kimono blu, un vero e proprio blu carpet che accompagna il cammino di Giada verso il suo diventare icona vivente. Una volta indossato, il kimono si rivela nella sua bellezza iconografica giapponese, avvolgendo il corpo come un’apparizione sacra, per poi scomparire nel buio, dissolto nel mistero dell’esistenza umana.
DIARIO 3
Andrea Peña & Alessandro Vigilante
con Samira Cogliandro (Cult of Magic)
a cura di di Sara Ubbiali
Giorno 1 – L’assaggio
Nella sala Atelier dell’Elfo Puccini, tre artisti sono comodamente adagiati su un tappeto di lana grigia fissato al pavimento. Andrea Peña (coreografa), Alessandro Vigilante (fashion designer) e Samira Cogliandro (performer) chiacchierano, si scambiano idee, tracciano direzioni possibili. Alle loro spalle, due fonici al mixer lavorano alla composizione di una delle tre parti della traccia audio della performance finale; ogni tanto si rivolgono ad Andrea per calibrare le modifiche, scegliere i campioni sonori. Il tema generale estratto per Dans(e) l’Atelier – “L’agiografia inventata di unə santə” – prende qui la forma di una “geografia di un santo”: una mappa possibile del piacere e del corpo a partire dalla figura di Sant’Agata. Sono reduci da una giornata di selezione accurata tra i capi delle collezioni di Alessandro. Ripercorrono insieme le scelte, intrecciandole a informazioni tradizionali, riflessioni attuali e suggestioni sensoriali legate alla santa. La condivisione diventa lo strumento per definire la struttura narrativa e iconografica, come fase preliminare al lavoro su corpo e movimento. Il piacere, la leggerezza, una nuova femminilità non restano solo concetti astratti, ma diventano un gesto concreto, conviviale: alla fine della giornata, i tre dividono una “Minna” portata dalla pasticceria. Un dolce tipico legato a Sant’Agata che qui si trasforma in piccolo rito: un vero e proprio assaggio della giusta misura nel lavoro creativo.
Giorno 2 – Una seconda pelle
Il secondo giorno la sala è abitata da un’altra energia, più concentrata. Samira, in abbigliamento casual da training, ripete e prova nel corpo una sequenza di movimenti che traducano – e allo stesso tempo riscrivano – alcune scene selezionate dal racconto tradizionale della vita di Sant’Agata. La ricerca danzata è guidata dallo sguardo di Andrea Peña, che interviene sul ritmo, sulla qualità dei movimenti, sulla scelta dei gesti “interessanti” o meno: la sua estetica è chiara, esigente. Poco distante, Alessandro segue il tracciarsi della partitura coreografica mentre, quasi in sottofondo, dà due punti di ago e filo a un ferretto uscito dal passante di un abito. Il sound designer prova a sovrapporre a un tappeto elettronico una preghiera in spagnolo. Tutto è pronto per una filata danzata in musica. Poi una breve pausa. È nel dopo che accade la trasformazione. Andrea invita Samira a ripetere la filata indossando gli abiti scelti da Alessandro. Un multi-layer di capi color carne, aderenti al punto che indossarli e sfilarli diventa esso stesso una coreografia. È qui che avviene la rinascita della santa. La danza assume tutt’altra forma: da un vestito appeso a due stativi emerge una creatura densa, trattenuta da un’identità fatta di lattice e PVC ma allo stesso tempo ancora più palpabile, efficace. Il corpo che si muove racconta un’altra versione di sé attraverso la sua seconda pelle. In questa agiografia reinventata, il santo non è più solo figura di martirio, ma corpo che reclama il piacere, che si concede la possibilità di riscrivere il proprio mito, gesto dopo gesto, strato dopo strato.



