Il viaggio nella realtà virtuale di WOE comincia in un deserto. È uno scenario da videogioco, dai colori sgargianti: gialle dune di sabbia, un cielo azzurro intenso, cactus verdi con fiori rossi. Eppure in esso c’è qualcosa di allarmante. A provocare disagio è un ronzio di fondo costante, che insieme alla luce elettrica che avvolge gli elementi dello spazio sembra suggerire la possibilità di un cortocircuito sempre imminente. Pesa su questo universo la completa assenza dell’uomo; è una mancanza che forse non stupisce in un deserto, ma diventa più significativa e ingombrante man mano che si attraversano altri scenari: una scuola, una casa, una fermata degli autobus.
Gli spettatori sono guidati in questo mondo da Lapis Niger, l’artista che lo ha disegnato e che modifica lo spazio sotto i loro occhi, e dalla voce di Giacomo Lilliù. Tuttavia non c’è una corrispondenza immediata tra l’immagine e la narrazione: la voce descrive file numerati e archiviati che vengono progressivamente aperti e in questo modo riportano alla luce un’immagine, un suono, e dunque un ricordo, il frammento di un evento. Lo spettatore è così portato a riconoscere nello spazio che sta attraversando un luogo della memoria, ma di una memoria artificiale, un hard disk dalla capienza quasi infinita che però, come ci avverte la voce narrante, «non sa che la memoria persiste in quanto si sfalda come le scogliere, i ghiacciai, i nuclei delle stelle».
La memoria artificiale, infatti, tenta strenuamente di opporre una resistenza all’oblio, ma il processo è irrealizzabile: lo spazio in cui lo spettatore si muove si trasforma continuamente e si deteriora, infine esplode in una discarica di rovine amorfe continuamente ferite dalla luce elettrica, mentre anche la voce narrante viene sovrastata da un’insopportabile cacofonia di rumori e urla. L’accumulo di informazioni nella memoria artificiale, ma anche nella nostra psiche sottoposta a stimoli eterogenei, caotici e incessanti, non mette in salvo i ricordi dalla loro scomparsa, ma anzi ne accelera la perdita di identità: trasforma gli eventi in tracce, brandelli – e infine in scorie. I creatori di WOE, che sanno ben sfruttare le possibilità della performance in digitale, rappresentano icasticamente questo processo integrando nella narrazione i messaggi che gli spettatori si scambiano in tempo reale nella chat di Twitch: frammenti di testo come «non c’ nessuno», «brucia la siepe», e persino «arriva Sergio» sono ripetuti a più riprese dalla voce narrante. L’effetto è potente: i messaggi generati solo qualche istante prima, decontestualizzati, perdono immediatamente il significato che avevano avuto in origine e confluiscono nell’anonimo rumore di fondo del quale questo lavoro smaschera i limiti e le minacce.
Allegra d’Imporzano
WOE – Wastage of Events
di e con Giacomo Lilliù, Lapis Niger
produzione MALTE
Questo contributo è parte dell’osservatorio della Settimana delle Residenze Digitali.