I Festival sono per loro stessa natura esperienze composite e mutevoli, soggette a variabili imprevedibili, sorprese, ribaltoni, rischi.
Per quanto si reperiscano informazioni e suggerimenti per arginare le cantonate e scovare le rarità, i programmi sono così fitti ed eterogenei che il senso di spaesamento è dietro l’angolo.
La fruizione frammentaria (per non dire schizoide) fa parte del gioco: bisogna abbandonarsi al ritmo rapido, farsi portare dalla corrente, vedere dove si approda solo dopo essere approdati.
In questo panorama caotico, il Festival VolterraTeatro si presenta come un caso eccezionale: la direzione artistica di Armando Punzo, il legame inossidabile con la Compagnia della Fortezza, la presenza stessa, fisica, massiccia del carcere, con le mura medievali ben visibili da qualunque punto della cittadina, segnano con inchiostro indelebile la cifra di quest’esperienza.
Il VolterraTeatro è florido e fuorviante come qualsiasi altro Festival (il programma è ricco di proposte a cavallo tra teatro, arte, poesia, musica, danza) ma colpisce lo spettatore in modo diverso, più in profondità.
Perché quello che accade s’inscrive in un’area che c’entra poco con le mode teatrali del momento, con la confusione da Festival, con le unità aristoteliche, con i “mi piace” su Facebook. Quello che accade ha a che fare con l’uomo in quanto tale.
L’edizione 2014 è dedicata al tema della ferita, intesa sia come sofferenza privata, del singolo individuo alle prese con le domande capitali, sia come orizzonte comune, come lente sugli sciagurati giorni attuali, segnati da un’imperante solitudine.
“Continuo a credere che la comunità degli artisti debba mettersi insieme e aprirsi agli Uomini sensibili, con questi lavorare e cercarne complicità per sogni inattuali. Non vedo altre possibilità per uscire da una condizione di marginalità e di vincente conformismo. Con chi provare a condividere la propria forzata solitudine, se non con chi ne ha consapevolezza e vuole liberarsi da questa condizione?”, così Punzo commenta la scena artistica dell’oggi e introduce l’imponente performance urbana che ha incarnato e reso visibile il tema della ferita: un’opera d’arte collettiva che ha legato insieme persone e edifici di Volterra, mediante un unico, infinito, drappo rosso, simbolo di lacerazione, certo, ma anche di ricucitura.
Oltre che un riferimento alla scena teatrale, nelle parole di Punzo si legge qualcosa di diverso, di più autobiografico, perché la “forzata solitudine” è soprattutto quella dei “suoi” prigionieri, dei carcerati, veri protagonisti del Festival.
Si accede al carcere -con le procedure rigide da film americano e le raccomandazioni gentili delle guardie-, si osservano i pesanti cancelli con le sbarre che si aprono lentamente, ci si ritrova in uno spoglio bar dove il caffè costa 30 centesimi, e finalmente si entra, si entra davvero, in un mondo tutto diverso, segreto, separato, straniero. Eppure, così vivido, così pulsante, così carico di significati che prorompono senza che ci sia il tempo di interrogarsi, senza mediazione.
Lo spettacolo comincia, gli attori aspettano in posa. Ci hanno lavorato per due anni, 8 ore al giorno (perché il teatro, per i detenuti di Volterra, non è mica un’attività tra le altre: il teatro è il loro mestiere) e sono del tutto credibili mentre recitano Genet; man mano che lo spettacolo va avanti, lo stordimento legato al contesto inconsueto aumenta, il senso di claustrofobia si acuisce, ma anche la percezione di esattezza, di pertinenza delle parole a quei luoghi e a quelle facce.
E siamo pronti a perderci all’interno delle minuscole celle (decorate, sovraccariche, gravide), a guardare negli occhi (truccati, dipinti, esagerati) ciascuno degli interpreti (brutali, femminili, sensuali) e ad ascoltare le loro storie (violente, lascive, struggenti), faccia a faccia, persino sfiorandoci, lanciandoci fiori di stoffa (colorati, nauseabondi, posticci) sudando e danzando insieme.
Quando lo spettacolo finisce, e gli applausi si fermano e gli occhi si asciugano, si osa persino scambiare qualche parola, spettatori e attori, a proposito del teatro, del carcere, della vita tutta. Dell’emozione di trovarsi insieme lì.
E ci si chiama per nome e si beve un bicchiere di spuma o di cedrata.
E allora sì che quella frattura dolorosa, quella solitudine apparentemente senza scampo, può vivere dell’illusione dell’incontro, effimero e fugace (c’è sempre chi resta e chi invece, quei cancelli di ferro, li attraversa senza voltarsi indietro), ma reale, tangibile, iscritto per sempre nella memoria.

Arianna Bianchi