Romanzo d’Infanzia ha superato le 600 repliche e continua a fare tutto esaurito. A cosa è dovuto secondo voi questo successo?

A: Credo che sia uno spettacolo che possa coinvolgere chiunque perché, pur non essendo per forza genitori, siamo tutti figli e ognuno di noi può riconoscersi in qualche modo in ciò che vede sulla scena.

M: Il nostro spettacolo tocca degli archetipi dell’esistenza: nascere, esserci o abbandonare, trasformarsi. Lo spettacolo ha a che fare con l’esperienza del sogno, sia dei grandi sia dei bambini.

Durante lo spettacolo voi non imitate i bambini, li fate esistere. Si può parlare di immedesimazione?

M: Nel teatro, l’opera coincide con chi la fa. In scena, l’enfasi è sull’unità assoluta tra personaggio e attore, che in quel momento è sia Michele sia Tommaso. Quando durante lo spettacolo interpretiamo i due bambini, non vogliamo proporre un’imitazione ma, attraverso un processo di reminiscenza, cerchiamo di portare sul palco i sentimenti dei bambini che siamo stati.

Eppure già quando l’avete messo in scena per la prima volta eravate distanti da quello che raccontavate e ora lo siete ancora di più. Come è cambiato lo spettacolo nel tempo e come siete cambiati voi?

M: Lo spettacolo è nato 25 anni fa, quando io e Antonella non avevamo ancora avuto nostro figlio. Son passati tanti anni ed è stato interessante, quasi terapeutico, percorrere un quarto di secolo con questo spettacolo. Ci commuoviamo ancora, anche perché è molto autobiografico: i genitori di Antonella andavano spesso all’opera, io sono scappato dal collegio… anche se non abbiamo mai incendiato una casa!

A: La cosa incredibile di questo spettacolo è che ha attraversato tutte le fasi della nostra vita: è impossibile dimenticarne la coreografia o il testo, ormai è diventato parte di noi. Ovviamente ci rinnoviamo un po’ ogni volta andando in scena, cercando di vivere ogni replica in modo diverso. E poi certo, la coreografia ha subito dei piccoli cambiamenti perché quello che eravamo a 33 anni, fisicamente, non lo siamo più.

Sono incredibili le reazioni dei bambini che assistono allo spettacolo.

A: È vero! Mi colpisce sempre come, dopo il momento di euforia che si crea durante il coinvolgimento dei bambini in platea, quando torniamo in scena, anche i più piccoli riescano a riprendere la visione con la stessa attenzione di prima. Questa è la magia del teatro.

Parlando di Erectus, uno dei vostri lavori in programma a MilanOltre: che valore ha un nudo sulla scena nel 2022?

A: Abbiamo fatto due spettacoli sulla nudità integrale: uno al femminile, La morte e la fanciulla, e uno al maschile, Erectus. In La morte e la fanciulla l’unico vestito che potevano avere le tre fanciulle era la loro nudità, perché aveva un valore drammaturgico. Nel caso di Erectus è stata invece una scelta politica: il nudo maschile è più scomodo rispetto a quello femminile, che al contrario viene maggiormente accettato dalla società perché considerato più grazioso. È importante invece che si cominci a vedere anche il nudo maschile.

M: C’è qualcosa di molto interessante nel concetto di nudo, perché rappresenta un’immagine che si distacca completamente dall’idea di tempo. L’abito che vestiamo, qualsiasi esso sia, ci pone all’interno di un determinato tempo: la forma è il tempo della presenza. Di fronte alla forma nuda hai paura: hai di fronte la vita nella sua essenza.

La riflessione su tempo e forma torna spesso, come altri insegnamenti dello zen. Quale importanza attribuite a questa pratica?

M: Secondo i monaci zen ci sono quattro momenti della vita, quattro posture fondamentali, che corrispondono a quattro ritualità: il gassho, quando stai, è una postura di concentrazione; il kinhin è il camminare; la posizione seduta corrisponde allo zazen, la pratica di meditazione; quella sdraiata al sampai, il saluto al sole. Da un punto di vista rituale hanno una dimensione mistica, ma in realtà sono anche le posizioni che ognuno di noi assume nella propria vita. Noi non abbiamo fatto altro che prenderle, sia nella pedagogia, sia nella creazione dei lavori, e cercare di unirle dentro un racconto.

A cura di Federica My


foto di copertina: Dario Bonazza

Questo contenuto è parte dell’osservatorio critico MILANoLTREview