dal racconto Battaglione di costruzione di Sergeij Kaledin
adattamento e regia di Lev Dodin
produzione Maly Teatr San Pietroburgo
Visto al Piccolo Teatro Strehler di Milano _ 27-31 gennaio 2016
Il rigore geometrico del quadrato bianco su cui si apre la scena di Gaudeamus è lo stesso di un castrum romano, di un accampamento militare. Al suo interno ulteriori partizioni dalla stessa identica forma: una regolarità risoluta in cui non sembra esserci posto per le eterodossie. Come nel potere marziale. È da questo ordine spaziale e dalla marcia trionfale che lo accompagna che nasce – letteralmente – il manipolo della Sovetskaya Armiya, protagonista del corrosivo e ormai celebre spettacolo di Lev Dodin. Gaudeamus torna al Piccolo Teatro a un quarto di secolo dal suo debutto del 1990, ma lo fa come un classico del teatro contemporaneo e con un cast rinnovato di attori giovanissimi.
E se il contesto storico e culturale che accoglie oggi lo spettacolo del Maly Teatr di San Pietroburgo – ispirato al censurato racconto di Sergeji Kaledin Battaglione di costruzione – è radicalmente mutato, il suo tempo sembra essere proprio quello attuale, per la disperante pervasività delle guerre (allusive in tal senso le battute sul conflitto tra “mondo arabo ed ebreo”), per lo spettro “dell’ospite inquietante” (teorizzato in un saggio di Umberto Galimberti), che si aggira tra noi come tra i giovani soldati di Gaudeamus.
Il fulcro della rappresentazione è infatti la loro insensata parabola esistenziale, che procede di pari passo con l’ineluttabile trasformazione della propria terra di origine: una “madre-terra Russia” dai connotati universali. È nel suo grembo che i giovani spensierati, diversi fra loro negli abiti e nei gesti, vengono inghiottiti – i quadrati d’un tratto si aprono, come voragini nella bianca e fredda neve omogeneizzante – per poi essere restituiti al suolo, divenuti ‘altri’, tutti simili con la stessa divisa, azzerati nella propria originaria identità. Questa mutazione non risparmia nessuno: anche le donne ne vengono contagiate e i loro abiti candidi e i piedi nudi, spariscono sotto giacche militari e alti stivali.
Il vivere viene così offerto nelle sue opposte manifestazioni: Dodin ne fissa il senso riprendendo l’amletico To be, or not to be – that is the question, lasciando intendere che seguirà uno scioglimento del dilemma.
Si giunge a questo attraverso un percorso fatto di lacerazione, comicità, a tratti clowneristica, di poesia, rabbia, sogni, perdita.
Le tappe più significative di questo viaggio hanno il volto caricaturale del potere militare, schiavo di un grado più alto, che in scena ha le esilaranti forme di un comodino, e del potere politico, ottuso e ottusamente replicato – “Anche Lenin diceva muuu” urla il comandante, intimando ai soldati di muggire -; hanno la voce degli stolti ordini di un tragicomico generale, domatore di un grottesco circo, nel quale i militari sono costretti a snaturarsi fino a diventare orango e pennuti da cortile.
Corollario quasi inevitabile di questo vivere è l’obnubilamento, tra sbronze e sesso compulsivo.
Tuttavia questa vita assurda e paradossale apre spazi alla tenerezza, come quella racchiusa negli abbracci inattesi fra un giovane soldato e la brusca e materna Nina, nei pietosi gesti della donna, quando ricompone i morti, nell’amore fra due giovani, scambiato sulla coda di un pianoforte.
Proprio attorno a questo strumento si giocano alcuni momenti clou di Gaudeamus: su tutti la danza tra palloni rossi, segni di una lieve e festosa vitalità destinata però a svanire per l’incapacità (o l’impossibilità) degli uomini e delle donne a trattenerla.
Il pianoforte in scena è anche il corpo delle tessiture musicali, partitura sostanziale dello spettacolo insieme alla danza che in Russia, e ancor più nella San Pietroburgo del Mariinskij, non può che essere classica. Il ‘classico’ Gaudeamus risemantizza così i passi di alcuni dei più noti balletti del ‘classico’ Čajkovskij, affidandoli, tra ironia e poesia, a soldati alle prese con ronds de jambe e terze posizioni, e i brani ‘classici’ della musica occidentale (Girls dei Beatles, Carmen di Bizet, la napoletana Santa Lucia), con l’intento di dissacrare totem culturali ma anche con la speranza di trovare nella creatività dei popoli una possibile via di fuga.
Più forte e assordante di tutto è però il grido del capo: “negli occhi io voglio la sottomissione”, e la circense orchestra d’ottoni, che compare alla fine dello spettacolo e che tanto ricorda il finale felliniano di 8 e mezzo, è solo un attimo. Scompare dentro i quadrati, dentro le bocche della terra, e ciò che resta sulla neve sono i segni lacerati della Fine.
Raffaella Viccei