Nell’età omerica era la cultura della vergogna a determinare l’assetto sociale: l’eroe e l’uomo comune vivevano in relazione all’onore che la comunità attribuiva loro, esistevano cioè in quanto oggetto del giudizio e del guardare altrui. E oggi che valore ha la vergogna? In che relazione si pone con il nostro quotidiano? Stiamo vivendo una nuova shame culture? Nell’era digitalizzata del popolo globale sono ancora molte le pagine da scrivere sul tema, laddove la vergogna ha un forte peso politico, privato e sociale — e non solo nella vetrina dei social. Bisogna quindi individuare una precisa angolazione e restringere il campo di indagine.
Humana vergogna, ultimo lavoro di Silvia Gribaudi e Matteo Maffesanti, presentato all’interno della Casa Circondariale di Matera, sceglie di ragionare sulla “relazione”. Se infatti Aristotele afferma che «la vergogna è negli occhi» — come ci viene ricordato durante la performance — perché non affrontarla nella dinamica ambigua e mutevole che si crea tra il soggetto e l’oggetto del guardare?
Vengono quindi indagate diverse modalità relazionali: quella tra spettatori e performer (Mattia Giordano, Antonella Iallorenzi, Mariagrazia Nacci, Simona Spirovska, Ema Tashiro), quella degli attori e del pubblico con sé stessi e quella, non meno importante, con il luogo in cui viene allestito lo spettacolo, e cioè uno spazio, nel giudizio comune, indissolubilmente connesso al binomio vergogna/colpa.
È infatti la Casa Circondariale il primo scenario che attende gli spettatori che, prima delle procedure di sicurezza per accedere alla sala dove si svolgerà lo spettacolo, ricevono un foglio su cui rispondere alla domanda “di che cosa ti vergogni?”. E anche se l’accoglienza nella struttura si svolge senza alcun intoppo, questo “prologo”, insieme al pezzo di carta che ognuno porta con sè, genera una sottile e inaspettata tensione, destinata in poco tempo a cambiare completamente di segno.
In sala il mood è infatti quello frizzante e divertito di un party della vergogna: in preparazione ai festeggiamenti, gli spettatori sono invitati a indossare una coroncina dorata con la scritta “Happy new shame!”
Con movimenti tra il grottesco e il liberatorio gli interpreti danno allora il via alle danze, indossando sotto le vistose pellicce, pochissimi indumenti. Il pubblico viene così investito da un clima vitale e trasgressivo, che restituisce l’immaginario di alcuni musical – dal Rocky Horror Pictures Show in avanti. Un rito pop in cui scaricare molti dei pesi di cui ci facciamo carico e dove la schiettezza e la giusta dose di ironia sono la chiave per allontanare ogni rischio di retorica. Ma il tempo per rilassarsi è poco, i performer cominciano “senza vergogna” a entrare nel tema.
La prima parola a comparire sul fondale è “farting”, argomento di cui si prende carico Ema Tashiro con un’esilarante tutorial di flatulenze in lingua giapponese, accompagnata dai gesti caricaturali e ripetuti di tutti i compagni di palcoscenico. Una vergogna per così dire “oggettiva” e condivisa, quella delle manifestazioni più basse del corpo, che suscita la risata complice dei presenti.
Capitolo dopo capitolo gli attori procedono per nuclei tematici, innescando e disinnescando a loro piacimento i meccanismi relazionali che di volta in volta vengono generati. “Ma andiamo oltre” è infatti la chiave, utilizzata da Simona Spirovska, maestra di cerimonia di questa festa, per scardinare il dispositivo della finzione e scandire la successione dei quadri.
È attraverso questa formula che l’argomento può cambiare radicalmente di segno. Quando la performer macedone, ad esempio, propone, con tono gelido, una disamina delle tecniche inumane usate nel suo Paese e in Italia, per eliminare i cani randagi. Se volessimo esercitarci, ci ricorda, possiamo sempre farlo con i Rom… Una crudeltà fredda che, al contrario del primo capitolo, mette distanza e suscita (ovviamente) lo sdegno di un pubblico estraneo a questi comportamenti. Eppure è sufficiente che gli attori comincino ad avvicinarsi col dito puntato verso la platea per far nascere un senso di imbarazzo in chi viene additato, per il solo fatto di essere guardato da tutti gli altri o, forse, per non il fatto di non essersi vergognato a sufficienza di quanto accade anche al di fuori della finzione.
È questo il primo scarto verso una dimensione interiore del lavoro in cui il pubblico entra a tutti gli effetti a far parte del gioco.
Mano alla fronte gli attori saltellano faticosamente per il palco, metafora di un faticoso accesso alla memoria in cui ritrovare quelle macchie che l’hanno indelebilmente segnata. L’essere giudicati per la propria forma fisica, l’aborto, il bacio con una persona dello stesso sesso sono episodi-simbolo che appartengono alla biografia dei performer tanto quanto alla storia personale degli spettatori. “Questa non è la mia storia” — ci dicono infatti — “questa è la tua storia”. Come in un tiro alla fune, gli interpreti riducono ancora una volta la distanza con la platea, mettono in discussione le sue convinzioni e accendono domande. Sono gli attori a vergognarsi o forse è il pubblico a farlo? Da dove nasce questo senso di imbarazzo? E ci si vergogna di sé o degli altri?
La vergona non è sul palco, ma nella relazione che si crea tra palco e platea, e — fuori dalla contingenza del qui e ora — tra individuo e società, tra le aspettative che abbiamo su noi stessi e la realtà dei nostri limiti.
Attraverso la formula “non mi vergogno a dire che…” toccherebbe infine al pubblico alzarsi e raccontare. E poco importa che si trovi, o meno, la forza di parlare. L’invito è infatti tutt’altro che provocatorio; è piuttosto lo stimolo a un cambio di atteggiamento, quasi un training da replicare davanti allo specchio.
La sensazione, dal punto di vista drammaturgico, è invece quella di uno slittamento dal piano della performance a uno quasi laboratoriale, che sembra restituire sulla scena le modalità di lavoro del gruppo, aprendo una finestra sulle tappe che hanno portato alla nascita dello spettacolo.“La poetica della vergogna”, il progetto diretto da Antonella Iallorenzi e coordinato da Franco Ungaro, di cui lo spettacolo costituisce l’ultima tappa, in un anno ha coinvolto maestri, professionisti italiani e stranieri, studenti e i detenuti della Casa Circondariale di Matera, attraverso workshop, seminari e aperture. Un percorso articolato, non esibito in modo didascalico, i cui esiti, che hanno un impatto che va oltre il risultato scenico, riverberano nella disponibilità e nel coraggio degli attori/danzatori e in un’intesa che ne costituisce la base imprescindibile.
Sulla linea di questo affiatamento, il gesto finale, in cui viene chiesto a ciascuno spettatore di accartocciare e lanciare sul palco il foglio a cui sono affidate le proprie vergogne, è catartico e condiviso. E la liberazione festosa da quell’unico e ingombrate effetto personale diventa un atto che, come l’azione teatrale, è politico e privato allo stesso tempo.
Camilla Lietti
Humana vergogna
invenzione e drammaturgia di Silvia Gribaudi e Matteo Maffesanti
con Mattia Giordano, Antonella Iallorenzi, Mariagrazia Nacci, Simona Spirovska, Ema Tashiro
visto alla Casa Circondariale di Matera dall’1 al 9 marzo
Lo spettacolo è parte del progetto “La poetica della vergogna” di Fondazione Matera-Basilicata 2019 e #reteteatro41