da Fëdor Dostoevskij
Regia di Alberto Oliva
Visto all’Out Off di Milano _ 12- 30 marzo
Pirandello ha trasformato in testi teatrali molte delle sue opere in prosa: si direbbe che lo abbia fatto tutte le volte che, nella pagina stampata, abbia individuato lui stesso un’anima drammaturgica (L’uomo dal fiore in bocca è uno tra i molti esempi).
Per Dostoevskij il discorso è diverso. È vero che, per motivi generazionali, non aveva fatto in tempo ad assistere al nuovo corso del teatro, introdotto da Nemirovič-Dančenko, Čechov, Stanislavskij, ma la letteratura teatrale russa aveva già conosciuto Puškin, Griboedov: sembra che questa tentazione non l’abbia mai toccato. Tuttavia non è difficile riconoscere nella sua prosa, stilisticamente nervosa, a volte quasi involuta, una struttura drammaturgica. Azzarderei una ragione: da un certo momento in poi Dostoevskij non scrive, ma detta quel che agita la sua mente tormentata a una segretaria, la dattilografa Anna Slitkina (che sarebbe poi diventata sua moglie). Ne risulta una prosa vicina al fluire del parlato, cioè del teatro.
Sta di fatto che, dalla prosa di Fëdor Michailovič, a torto o a ragione, i teatranti hanno pescato a piene mani. Ho in mente un incredibile Delitto e castigo della compagnia Slovensko mladinsko gledališče di Lubiana, diretta da Diego de Brea, visto al Mittelfest nel 2010: una drammaturgia ove il testo, prosciugato, ridotto a poche battute spesso pronunciate fuori scena, era stato quasi integralmente trasformato in azione teatrale, in immagini di forte impatto emotivo. Meno convincenti altre proposte, compreso un Idiota, visto anch’esso al Mittelfest, per la regia di Nekrošius.
Drammaturgicamente articolato è l’adattamento firmato a quattro mani da Alberto Oliva e Mino Manni. La carriera del giovane regista, ancora breve ma intensa, rivela un amore sconfinato per Dostoevskij, da lui visitato a più riprese con risultati alterni.
Di tali prove, questa è forse la più matura. Abbandonando le opere considerate maggiori del Nostro, Oliva si è nuovamente rivolto a un romanzo breve (come già aveva fatto con Le notti bianche), di impronta etica non meno forte rispetto ai grandi testi dostoevskiani, ma meno complesso nella struttura. Il titolo originale, Igrók, ha la medesima radice di igràt’ (parola che, come in moltissime altre lingue, non significa solo “giocare”, ma anche “recitare” e “suonare”), e implica anche il concetto di gioco d’azzardo: in effetti, in inglese, è stato tradotto con The Gambler, cioè Lo scommettitore.
Coerente con questa visione, la lettura di Oliva non si focalizza sul tema – oggi inflazionato – della ludopatia, bensì dell’azzardo come abito mentale, come approccio alla vita. Per questo motivo, rispetto alla divorante, compulsiva emozione della roulette, nello spettacolo trovano un spazio di più ampio respiro i rapporti umani, vissuti essi stessi come scommesse, spesso irrazionali. L’atmosfera del casinò, con i suoi meccanismi da cardiopalma, è restituita principalmente dal fantasioso contrappunto figurativo dei video, creati dalla giovane compagnia Exen Media, che offrono momenti di intensa, suggestiva suspense.
Al bravissimo Davide Lorenzo Palla il compito di incarnare, oltre al mefistofelico personaggio del croupier, un variegato campione di umanità, accomunata da un funereo destino di estinzione, come l’esilarante babulen’ka, la nonna creduta moribonda che, con gioiosa, stravagante cocciutaggine, riesce a perdere al tavolo da gioco una fortuna. Questa caleidoscopica presenza lascia quasi in ombra gli alti due personaggi, Aleksej e Polina, pur efficacemente disegnati da Mino Manni ed Elena Ferrari. Lo spettacolo si fa seguire con piacere: gli attori sono bravi; la regia è accurata; l’utilizzo dei video (salvo, a tratti, qualche ridondanza) è intrigante, e segue un’apprezzabile logica drammaturgica.
Dostoevskij, suo malgrado, si rivela anche grande scrittore di teatro.
Claudio Facchinelli