regia di Antonio Latella
visto in prima nazionale al Teatro Bonci di Cesena_ 21-24 novembre 2013
repliche all’Elfo Puccini di Milano dal 18 al 30 marzo 2014.
“Quando si parla di menzogna, si parla di teatro. Il teatro è un artificio che si nutre di menzogne. La questione è tutta qui: come mentire per avvicinarsi alla verità?”, così Antonio Latella a proposito del suo ultimo lavoro Il servitore di due padroni, una riscrittura del testo di Goldoni per mano del drammaturgo Ken Ponzio, attualmente in tournée nelle principali piazze italiane.
La frase, estrapolata da un’intervista inclusa nel programma di sala, contiene un messaggio decisivo per inquadrare tanto l’obiettivo di questo Servitore, quanto il nuovo affondo del regista napoletano: Latella aggiunge il terzo capitolo alla sua tetralogia dedicata al tema della menzogna (i primi due sono stati gli spettacoli A. H., incentrato sulla figura di Hitler, e Die Wohlgesinnten tratto da Littell, cui andrà aggiunto il conclusivo Peer Gynt di prossima lavorazione). La sfida consiste nel perseguire un profondo lavoro di decostruzione delle dinamiche tradizionali per mostrarne l’assoluta arbitrarietà, la vuotezza, e, soprattutto, per capire cosa accade dopo. Dopo che la scena è stata svuotata dei suoi elementi tipici, dopo che il testo ha perduto i suoi appigli semantici, dopo che l’attore, invece della battuta fissata, si è abbandonato a un brusio di fondo, balbettando un incessante “rabarbaro, rabarbaro, rabarbaro”.
Il servitore di due padroni si apre sulla hall di un albergo impersonale, ricostruita fedelmente. Al centro del palco troneggia un ascensore che scandisce il ritmo della vicenda con movimenti meccanici e che, complice il suo inevitabile rimando all’Overlook Hotel di Shining, sembra alludere a un macabro conto alla rovescia. Ed è il primo inquietante campanello d’allarme.
Solo in scena, Brighella – l’ottimo Massimiliano Speziani – introduce il contesto, presentando i clienti dell’albergo, leggendo le didascalie del copione, segnalando entrate e uscite dei personaggi: c’è Pantalone (Giovanni Franzoni), la figlia Clarice (Elisabetta Valgoi), l’innamorato Silvio (Rosario Tedesco), il padre di lui (Annibale Pavone), e una Smeraldina dalla pelle scura (Lucia Peraza Rios), cameriera dell’albergo, che si dà un gran da fare passando l’aspirapolvere.
Sdraiato sul fondo del palcoscenico e di bianco vestito, Arlecchino appare come un seduttore svogliato: un personaggio noir, forse alticcio, che il bravissimo Roberto Latini controlla e non controlla, contiene e non contiene, muovendosi su un filo teso tra l’interpretazione e la rinuncia di sé. L’arrivo di Beatrice travestita da uomo (Federica Fracassi) determina uno scarto ulteriore rispetto al tema centrale: è il personaggio emblema della bugia nella deriva dell’ambiguità, dell’incertezza, della devianza. Non a caso, Ponzio e Latella decidono di modificare la relazione tra Arlecchino e Beatrice: non più padrone e servitore bensì fratello e sorella legati da una relazione incestuosa. È un secondo campanello d’allarme: non solo nulla è come sembra ma i rapporti di potere si possono sovvertire in continuazione.
Spiazzante è anche l’ingresso di Florindo (Marco Cacciola), che sembra precipitato sulla scena da un reality di quart’ordine: avanza verso il pubblico come una rockstar dalle movenze sexy, ma stereotipate, esasperate fino al parossismo, ridicole. Un Lapo Elkann in gonna e smalto nero. La tensione dovuta agli equivoci, ai tic dei vari personaggi (retaggi della commedia dell’arte mutuati in manie, caricature), alle spinte amorose (non mancano scene di sesso omosessuale esplicite) cresce vorticosamente sino alla fine del primo atto, sostenuta da un melting pot linguistico che porta i personaggi a esprimersi in una sorta di Grammelot universale, nutrito di pulsioni primordiali e coazioni a ripetere.
Quando si riapre il sipario (“addirittura utilizzerò il sipario, cosa che non facevo da molti anni!”, preannuciava Latella) l’atmosfera sulla scena è radicalmente cambiata: quel conto alla rovescia reclama il suo appagamento. È Arlecchino a dare il via alle danze, divellendo letteralmente una lampada dalla scenografia: “non farlo!”, grida Beatrice – o meglio la Fracassi – ma ormai è tardi, il processo è avviato ed è irreversibile. Quello che accade nel secondo atto è l’estrema conseguenza dell’operazione di smascheramento latelliana, portata fino allo smantellamento definitivo.
Sopravvivono dei frammenti di teatro possibile, inconsistenti eppur straordinari, come la ripresa per il povero Arlecchino del “lazzo della mosca nella versione di Moretti”, che incarna tutta la forza coercitiva dell’impianto tradizionale cui è inevitabile rifarsi anche se si vuole parlare dell’oggi, accanto a un’intensità umana troppo umana che, più di ogni altro momento dello spettacolo, invita lo spettatore a una commozione senza tempo e senza storia.
Arianna Bianchi